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Un romanzo che è nato dopo cinque anni
di ricerche e di lavoro, che ha visto Carmen Covito impegnata
in studi di archeologia e in viaggi in Siria dove ha partecipato
a due campagne di scavi. La Rossa e il Nero si prospetta
come una svolta nella produzione di questa versatile scrittrice:
un romanzo che, pur essendo una godibilissima "commedia d'avventura",
è frutto di un'opera di documentazione estremamente accurata.
Grazia
Casagrande
Alice.it
nell'anticipazione dell'11 ottobre 2002
Covito vi inanella espedienti narrativi
classici come lettere ottocentesche scovate in modo fortuito in
fondi di cassetti e misteri alla Agatha Christie, li alterna a
incisi dintonazione saggistica in cui si discetta di tecniche
di scavo o di rubia tinctorum, un tempo utilizzata industrialmente
nella valle del Sarno. Poi condisce il tutto con lingrediente
per il quale si distingue tra le scrittrici italiane: unironia
ad alto tasso creativo. Sarà anche questo che rende fluida
la scrittura di Carmen Covito, facendo scivolare la storia su
piani sovrapposti come in un ipertesto fantasioso dove si alternano
la fiction, la notazione da saggio, la spy story.[...]
Titti Marrone
Il
Mattino 12 Ottobre 2002
L'esperimento narrativo di Carmen Covito nasce come sempre dall'incontro
tra un personaggio medio e un ambiente sconosciuto. È da
quest'incastro tra comune medietà e singolarità
delle circostanze che anche il più banale character
entra di diritto nel romanzo, a rivendicare una sua risorgenza
come individuo tra altri individui, a mettere in moto una serie
di fatti che aspettano solo lui per essere raccontati. In La
rossa e il nero Cettina, sfigata single trentaquattrenne di
fine millennio, dibattuta tra le incursioni del disincanto e le
pastoie della depressione, cui oppone una spiritosa iperfasia,
parte per la Siria. [...] Il risultato è una invidiabile
leggerezza narrativa.
Patrizia
Danzè
Stilos
(quindicinale di letteratura, anno IV n. 21) 15 ottobre 2002
Verso l´isola del tesoro con l´archeologa Covito
SÌ, sì, ecco un buon esempio di romanzo che si fa leggere senza
pretendere che tu ne segua le fila per scovarne ad ogni costo
i mille piani di lettura alla ricerca della cosa in sé. E dire
che nell'ultima opera narrativa di Carmen Covito (sono passati
dieci anni esatti dall'esordio della "bruttina stagionata") di
sottosuoli, di ipogei, di doppi fondi, di cavi, scavi, covi e
persino covili ce ne sono parecchi, visto che la trovata è quella
di una fotografa abbastanza ma non del tutto improvvisata che
irrompe nel cuore di una spedizione archeologica nel deserto siriano.
La "bruttina" è diventata persino
bellina e si chiama Cettina Schwarz, ha un'ibrida genealogia familiare
di ascendenza passabilmente remota, ha radici da provinciale sudista,
un paese del Salernitano (Scafati) regolarmente registrato nel
libretto dei codici di avviamento postale, che ha abbandonato
afflitta d'uggia e d'asfissia per tentare la ventura del gran
Milàn, ha un matrimonio alle spalle, che ne insidia ancora la
memoria, ha un'amica imperversante ma generosa che vive a Parma
(gli stridori del titolo stendhaliano non sono senza ragion geografica)
e che la introduce in un circuito impensato, ha una gran voglia
di darsi da fare e con qualche piroetta del caso ha la fortuna
d'essere assoldata in un'impresa non destituita di un qualche
fascino - quantunque ridotto - d'esotismo culturale: manco a dirlo,
tra il più sequel degli Indiana Jones e il più (mentalmente) remake
dei Lawrence d'Arabia con appena appena un pizzico - includendo
nel cocktail ironia e spiazzamento - di improbabile Casablanca.
Non è poco.
Non è poco, infatti, assistere alle
avventure di una spedizione archeologica (in un sito sulle rive
dell'Eufrate, che è un po' come la mappa dell'Isola del tesoro),
alle manovre del prestigio accademico che ne può venire al gran
capo Giorgio Cavalli-Donati (ovviamente esclusa ogni immaginabile
assonanza nominale?) e alla sua équipe, alle paranoie e alle
ansie del ritrovamento favoloso, ai rapporti intricati da un lato
coi locali e dall'altro con una comunità forzata a convivere in
condizioni non propriamente comode, costretta a tener conto
di un mondo diverso in cui la cosiddetta globalizzazione ha pur
teso le sue imboscate. Ma niente moralità e moralismi, meno
che mai predicozzi ed edificazioni, nulla di più lontano dal tono
di un romanzo che vive d'una disinvoltura narrativa quasi priva
di zone morte. Tutto il mondo in piccolo che ruota intorno
ad una scienza dotata d'un suo linguaggio (settoriale), di suoi
strumenti (esclusivi), di suoi codici (allusivi), di suoi rituali
(connettivi), miserie e nobiltà di un campo di ricerca visto
con gli occhi di un io-femmina lodevolmente autoironico
(ma capace anche di soste liriche e riflessive).
Dopo i primi smarrimenti, la fotografa
Schwarz finisce per sentirsi parte di una comunità in cui diventa
naturale che desideri, triangolazioni, trame, gerarchie, ambiguità
corrano sul filo di un mistero che avvolge un po' tutto dentro
un clima stridulo e variopinto (vorrei indicare almeno una scena
ad alta temperatura eros-comica, quella giocata tra la "rossa"
Cettina e il "nero" Ahmad a colpi di tono muscolare, di sguardi
cosmici e di mirabolanti antologie poetiche da Khayyam e Hafiz).
Un mondo che la Covito ha cura di legare ad una struttura appena
appena concepita in forma di giallo. Non tanto per moda, ma lavorando
se mai di sottigliezza giocosa. Un giallo che narrativamente (non
cronologicamente) s'avvia subito, a partire da una stanza del
Baron's Hotel di Aleppo, in cui emergono per caso alcuni documenti
di un passaggio che si rivelerà fondamentale.
Storia d'un'avventura in cornice misteriosa,
il romanzo si regge su una lingua molto mossa. Mescolanze lessicali,
sprezzature d'un parlato multilingue, indiretto libero per i discorsi
altrui riportati di traverso, documenti faux-exprès, torsioni
sintattiche e in più esclamazioni e zeppe in quantità, segnali
discorsivi in cui la voce di Cettina racconta la vita d'un gruppo
speciale ma anche la storia di una che - senza parere - va cercando
se stessa. Senza parere vuol dire quasi di sguincio. Con bell'umorismo
non privo ogni tanto di amarognolo, qualche volta di amaro.
Giovanni
Tesio
La
Stampa (TuttoLibri) 26 ottobre
2002
Covito: la bruttina stagionata scappa in Siria
E' dal 1992 che dietro i romanzi di Carmen Covito, una delle voci
meno convenzionali e più espressive della nostra narrativa, si
profila la silhouette della «bruttina stagionata», protagonista
dell'opera prima che fu Premio Bancarella, bestseller tradotto
in varie lingue, oltre che portato in teatro da Franca Valeri.
Malgrado l'attitudine della scrittrice a rimettersi ogni volta
in gioco, pubblico e critici sono andati a cercare anche nei due
successivi romanzi (Del perché i porcospini attraversano la
strada, Bompiani 1995; Benvenuti in questo ambiente,
Bompiani 1997) l'ombra di quella Marilina La Bruna, «quarantenne
non brutta ma, peggio, bruttina» che sopravvive in una Milano
popolata di donne solitarie e di furbi che ne approfittano.
Sfondo dei primi libri era comunque
la vita quotidiana sia pure percorsa da fuochi d'artificio grotteschi
o surreali, beffardi o poetici. Ora, dopo cinque anni di assenza,
la Covito ritorna, fa una capriola e spiazza i lettori con un
romanzo che dagli spazi limitati dei precedenti si libra sui deserti
della Siria: una storia d'avventura, amore e mistero dove ci si
trova via via con Agatha Christie e i suoi delitti «archeologici»,
con Lawrence d'Arabia e i suoi beduini in rivolta, tra un film
di Indiana Jones e un videogame di Tomb Raider.
Ma non è solo questione d'esotismo:
la novità sta nell'ingranaggio, che propone un enigma da feuilleton,
poi sembra smarrirlo in situazioni da commedia e infine lo rievoca
a colpi di teatro, dando vita a un intreccio dove presente e passato
s'incastrano in un puzzle quasi perfetto. La Covito sceglie con
cura i «tòpoi» dell'avventura mediorientale, li combina e li rivisita
con astuzia: un albergo coloniale come scrigno dei misteri (il
più classico e vetusto, l'hotel Baron di Aleppo frequentato per
davvero da Lawrence e da Agatha Christie); manoscritti nel cassetto
da cui affiorano brandelli d'intrigo politico, romantico, archeologico;
scheletri ingioiellati sotto le sabbie mesopotamiche; una pallottola
nel sepolcro e il testimone decrepito che spunta dal nulla ma
conosce ogni verità.
Chi capiti ad Aleppo, fra chilometri
di suk, bagni turchi, giardini di delizie, nobili palazzi armeni
e caravanserragli, ha la sensazione di trovarsi alla porta di
tutti gli Orienti, dove labile è il confine fra realtà e illusione.
La Covito naviga sicura in quelle atmosfere, mischiando però l'incanto
al disincanto, la ricerca di radici remote con figurine del presente
goffe o meschinelle, patetiche o sballate (il baraccone nevrotico
di una missione archeologica), nelle quali si riconosce la scrittrice
ironica, capace di sbozzare maschere quotidiane con acre perfidia
appena venata di compassione.
Nella protagonista Cettina Schwarz
- trentaquattrenne dalla vita grigiastra, divorziata e disoccupata,
che si infila nella missione come fotografa - qualcuno vedrà una
controfigura della «bruttina stagionata». Non è chiaro quanto
sia avvenente: certo è scialbetta, impacciata, mortificata negli
amori. Ma basta che una beduina le colori i capelli con l'henné
perché il bruco slavato diventi sanguigna farfalla capace di volare
alto fra rancori, gelosie, tradimenti, di vivere uno scampolo
torrido di passione e soprattutto di tuffarsi nell'oscurità del
labirinto per uscirne trionfante con in pugno il filo d'Arianna.
Cettina, insomma, ha la sua metamorfosi, un po' come l'immaginario
della nuova Covito siriana.
Cesare
Medail
Corriere
della Sera domenica 3 novembre 2002
Avventura gialla in Siria
Quando Howard Carter si trovò a dover raccontare il suo ingresso
nella favolosa tomba di Tutankhamon, fu preso da un attacco di
pudore così violento che scrisse una frase molto discutibile:
«Le emozioni non fanno parte della ricerca archeologica». Sono
invece proprio le emozioni quelle che affascinano i lettori delle
storie vere di archeologia, e non sono molto diverse da quelle
che inchiodano alla poltrona i lettori dei "gialli" ambientati
fra mummie, reperti cuneiformi, maledizioni dei faraoni ecc.,
con protagonisti scavatori affascinanti e splendide avventuriere.
E' proprio questo il caso dell'ultimo romanzo di Carmen Covito,
«La rossa e il nero» (Mondadori), giusto a metà tra vero e verosimile,
ma con in più una notevole dose di competenza in fatto di archeologia
e un'ironia sottile, scoppiettante, che apparenta questa scrittrice
napoletana dalla vita cosmopolita, ai migliori esempi di scrittori
inglesi, in cui l'humour balena per varie crepe del loro "self
control".
Che la Covito fosse una voce nuova
e originale della narrativa nostra lo si era visto già nella prima
eccellente prova, quel La bruttina stagionata, diventato
giustamente famoso. Gli altri due romanzi non hanno smentito le
previsioni. Ma quest'ultimo è probabilmente destinato ad un successo
tra critici e pubblico ancora più largo. Gli ingredienti ci sono
tutti: un mistero da risolvere, un gruppo di scienziati e allievi
e i loro complicati rapporti amichevoli e sentimentali, il paesaggio
orientale delle steppe e le rive dell'Eufrate, in Siria.
La protagonista Cettina Schwarz,
uno strano impasto di partenopeo e di svizzero, come il nome rivela,
non appena arriva in Siria si trova a sbrogliare i fili di un
mistero: in un albergo di Aleppo trova una lettera di una strana
Lady inglese, forse una spia, che chiede soldi al padre per scopi
scientifici un po' oscuri. Cettina presto si dimentica dei foglietti
ingialliti che ripone nella borsetta e si immerge nello strano
ed eccitante modo di vivere della missione archeologica. Eccitante?
Soprattutto per chi vuole come lei fuggire dalla solitudine della
città e dalla depressione di una storia sbagliata con l'ex marito.
Ma nel sito archeologico di Tell Mabruk tutto è un'avventura,
anche andare in bagno. C'è un'intera città del Secondo Millennio
a.C. da riesumare prima che una diga di nuova costruzione sommerga
le rovine nelle acque dell'Eufrate, c'è l'eccitazione di vivere
in ambienti insoliti ed esotici, ci sono gli occhioni nerissimi
dell'archeologo siriano. C'è perfino una "talpa" che passa informazioni
alla missione archeologica rivale. Intrighi, ambizioni accademiche,
passioni più o meno violente e colpo di scena finale: per sapere
come va a finire bisogna proprio leggere il romanzo.
Abbiamo chiesto a Carmen come le
è venuto in mente di scrivere un libro come questo: che cosa c'è
di vero e quanto di immaginario in tutta la vicenda?
«Avevo in mente da molti anni di scrivere un romanzo che riguardasse
l'archeologia, ma dovevo procurarmi una certa competenza in materia.
Nel 1998 per una fortunata occasione sono entrata in contatto
con il professor Frederick Mario Fales e sono riuscita a convincerlo
ad ospitarmi in Siria, a Tell Shiouk Fawqani, dove c'era una missione
archeologica. Nel 2000 ci sono tornata, questa volta nel grande
sito di Qatna. Intanto avevo letto un mucchio di manuali e avevo
scoperto figure di affascinanti viaggiatrici inglesi della fine
dell'Ottocento o primo Novecento. Tell Mabruk, dove si svolge
il romanzo, è del tutto immaginario, costruito con pezzi di siti
archeologici veri, come un puzzle. E così i personaggi. Vero invece
è il loro rapporto, il tipo di linguaggio che usano e le cognizioni
scientifiche e tecniche».
La trama è quella di un giallo classico,
alla Agatha Christie, che però si allontana in parte da questo
modello, quanto e come?
«Nei miei romanzi la trama gialla è sempre trattata in modo ironico.
Di Agatha Christie ho avuto in mente i romanzi, ma anche la sua
biografia. Aveva sposato in seconde nozze un archeologo che seguiva
nella spedizioni come fotografa. A Baghdad un'archeologa italiana
mi ha detto di averla incontrata negli anni Cinquanta che si faceva
aprire le vetrine dell'Iraqi Museum, come se fossero le vetrinette
di casa sua. E in un certo senso lo erano... Ma forse l'unico
elemento veramente giallo nel libro è venuto fuori dalla mia voglia
di uccidere qualcuno con una cazzuola da archeologo: sono affilatissime!».
Paola
Azzolini
Bresciaoggi
e L'Arena 3
Novembre 2002
Bruttina anzi Cettina
Il nuovo libro di Carmen Covito ("La rossa e il nero",
Mondadori) è un'avventura, letteralmente: un'avventura
che sa di luoghi lontani, tanto nello spazio quanto nel tempo,
e che sfrutta tutto il bagaglio di fascino dell'archeologia. D'altra
parte è proprio con una serie di "foschi" misteri
(non certo così mozzafiato come quelli del professor Jones
- Indiana Jones - di cui qui non si ripetono le "prodezze"
ginniche) che la protagonista Cettina Schwarz, "napoletana
svizzera" che tira avanti con il lavoro interinale, si trova
ad avere a che fare: a partire dal ritrovamento di vecchie lettere
(parlano d'amore, di soldi, di spionaggio) in un mobile liberty
di una suite dell'Hotel Baron di Aleppo. Ma andiamo con ordine.
Grazie all'aiuto di una compagna di
scuola (Latitti - con l'articolo incorporato - Parascandolo, "detta
Para ai tempi del liceo") e a un bel po' di bugie, Cettina
riesce a infiltrarsi come fotografia nella prestigiosa spedizione
archeologica che un gruppo di studiosi dell'Università
di Parma sta conducendo in Siria, a Tell Mabruk, dove si sta lavorando
sui resti di una città del secondo millennio avanti Cristo:
proprio lì. durante una visita a Aleppo, scopre le lettere
di quella che s'identificherà poi in Juliet Waterbridge
(il primo e più interessante "mistero" del libro),
alle quali s'aggiungono poi un'altra serie di curiosi interrogativi
legati agli scavi (chi è, per esempio, che passa informazioni
ai "rivali", membri di un'altra spedizione nei paraggi?).
Su questo scheletro Carmen Covito costruisce la sua storia, tornando
un po' agli accenti della "Bruttina stagionata" e disegnando
una protagonista in cui ogni lettore (ma soprattutto le donne,
è ovvio) è spinto ad identificarsi.
La sua Cettina, divorziata ma nella
sostanza ancora incatenata all'ex marito (che a lei non pensa
invece più, anzi...) è quasi una quintessenza di
frustrazioni, devozioni e aneliti femminili: un po' fantozziana
ma decisa, ingenua ma pronta a dotarsi in breve dei necessari
strumenti per sopravvivere (al fuoco incrociato - metaforico -
che ogni tanto si scatena sugli scavi), entra subito nelle grazie
di chi legge. Fin dall'incipit (kafkiano al contrario) e dalla
divertentissima caccia allo scarafaggio che esso contiene: "O
io o lui. Non ho scelta. [...] Io lo ammazzo lo stesso".
È questa scrittura scorrevole,
questo tono leggero e brillante, la cifra principale della Covito
di "La rossa e il nero", che in qualche punto raggiunge
una vis comica invidiabile e che questa stessa tensione "verso
il basso" riesce a mescolare alla "serietà scientifica"
dell'archeologia: è anzi proprio da tale cortocircuito
che trae forza il volume, "impasto" pregevole tutto
giocato sulla visione "straniata" di Cettina/Covito
e sull'ironia necessaria con cui ritrae quanto la circonda (compresi
intrecci davvero da telenovela nella spedizione). Un'ironia
irresistibile, decisa e perspicace: la stessa con cui di Parma
(città scelta - per passione? per caso? - come punto di
partenza del viaggio) si colgono aspetti (dal giornale "Maria
Luigia News" all'intervista con l'archeologo pubblicata dal
quotidiano) che non possono non far sorridere - per l'acume dell'osservatore
- gli stessi "indigeni".
Lisa
Oppici
La
Gazzetta di Parma 24 Novembre 2002
Sono ormai numerosi i romanzi che hanno per oggetto argomenti
storico-archeologici. Si è anzi andato sviluppando nel mercato
editoriale di questi ultimi anni un vero e proprio fortunato filone,
che riscuote un grande successo in un pubblico sempre più attratto
da avvincenti racconti ambientati nel mondo antico, specie quando
si miscelano sapientemente alcuni ingredienti di sicuro effetto,
come l'avventura e il mistero. Questo bel libro di Carmen Covito,
invece, risulta alquanto originale nel panorama della narrativa
contemporanea (se si esclude l'illustre precedente di Agatha Christie,
com'è ben noto grande appassionata di archeologia ed anche moglie
dell'archeologo Mallowan), perché è ambientato nel vivo di un
cantiere di scavo archeologico.
Il titolo, esplicitamente ispirato
allo stendhaliano Le rouge et le noir, allude al colore
dei capelli della protagonista (in realtà biondi scialbi, divenuti
rossi a seguito di una sbagliata tintura con l'henné), Cettina
Schwarz, "napoletana svizzera" trentaquattrenne con un passato
di studi classici interrotti e un matrimonio fallito alle spalle,
senza un lavoro fisso e capitata quasi per caso su uno scavo archeologico
in Siria; il nero è l'affascinante condirettore dello scavo, siriano
dalla parlata romanesca, di cui Cettina si innamora. Spacciatasi
per fotografa professionista (ma in realtà solo dilettante, anche
se poi rivelatasi molto efficiente quando, a sua insaputa, si
trova nel difficile ruolo di fotografa ufficiale della missione
archeologica), entra improvvisamente a far parte della fantomatica
équipe di scavo dell'Università di Parma diretta dal prof. Giorgio
Cavalli-Donati, nell'altrettanto fantomatico, anche se molto realistico,
sito di Tell Mabruk e nel corso di dieci intensissimi giorni vive
tutte le vicende di questa ricerca, con risvolti inaspettati.
La Covito dimostra di conoscere direttamente
i cantieri di scavo e di averne studiato attentamente l'organizzazione,
perché è riuscita a coglierne il clima e a descrivere, in maniera
efficace e con grande ironia, le dinamiche interne al gruppo,
le manie, le rigide gerarchie (evidenti per esempio quando gli
scavatori siedono a tavola), le rivalità (non solo tra gli archeologi
e i vari saggi dello stesso scavo, ma anche tra le diverse missioni),
le frustrazioni, le ansie, l'esaltazione per una scoperta importante
e le più frequenti delusioni. E così ritroviamo il tipico gergo
da scavo, o gli immancabili sfoghi dell'archeologo stanco ("alla
prossima macina di basalto io mi metto a urlare, giuro. Almeno
le trovassimo in una bella situazione sistemata, che so, cinque
o sei allineate in una stanza che ci puoi fare la solita pubblicazione
inutile."), le accanite ed esaltanti discussioni sulle interpretazioni
dei ritrovamenti spesso con la formulazione di ipotesi azzardate
poi smentite, la mania per la trowel, simbolo della moderna
archeologia stratigrafica, il rigore dello scavo sistematico,
ma anche il desiderio intimo dell'improvvisa scoperta sensazionale
che dia una svolta allo scavo ("da oggi non si parlerà più del
cavallo di Carter, da oggi si parlerà solo del culo di Cavalli-Donati").Il
sito di Tell Mabruk infatti è destinato ad essere sommerso dalle
acque di una diga, se non si effettuerà una scoperta veramente
significativa che possa garantire la prosecuzione delle ricerche.
Anche alcuni aspetti che potrebbero
apparire stereotipati (come l'accanita ricerca dello scoop e della
fama, o, per esempio, i "flirts" da scavo) e quindi destinati
a perpetuare un'immagine un po' fuorviante dell'archeologia e
degli archeologi, sono ben compensati non solo dall'ironia con
la quale sono trattati ma soprattutto dal grande interesse che
pervade tutte le pagine del libro per la ricerca archeologica
seria e rigorosa, per la storia antica, per le scienze applicate
all'archeologia, per le tecniche e le metodologie dello scavo
stratigrafico, per la storia della disciplina e per l'evoluzione
dei metodi. Corretti e appropriati sono così i continui riferimenti
alla sequenza stratigrafica e alle unità stratigrafiche, al matrix,
agli small finds, alle analisi antropologiche, alla documentazione
grafica, fotografica, fotogrammetrica, ecc. Pur in un romanzo
di fantasia, si riesce a cogliere pertanto il senso più autentico
della ricerca archeologica.
Non mancano poi momenti veramente
esilaranti, come ad esempio l'arrivo di Cettina a "casa scavi"
in piena notte, mentre tutti dormono in stanze dominate dal caos
tipico di alloggi molto precari ("sembrava un campo nomadi dopo
l'arresto e la deportazione degli occupanti, o, no, la camerata
di un collegio per terremotate giovani") o il suo primo impatto
con una toilette popolata da animaletti. Ma dopo pochi giorni
anche Cettina, come ogni archeologo, si ambienta e si sente a
casa sua, tanto da "non badare più di tanto a cose che da impossibili
diventano in fretta normali".
La rossa e il nero non è,
come si è detto, un romanzo storico, nel senso che non tratta
di personaggi e fatti ambientati nel passato. È un romanzo avvincente
che ha per protagonisti archeologi impegnati in uno scavo e in
una ricerca storica, con un riuscito intreccio di fatti attuali
e di vicende accadute in Siria nello stesso sito di Tell Mabruk
agli inizi del Novecento, relative alle avventure, tra archeologia
e spionaggio, della viaggiatrice inglese Juliet Waterbridge, di
cui Cettina Schwarz scopre fortuitamente una lettera in una stanza
dell'Hotel Baron di Aleppo. E sarà un'altra casuale scoperta,
quella del diario della fedele cameriera di Lady Juliet, Mary
Hull, a fornire a Cettina la spiegazione di una "strana" tomba
ipogeica rinvenuta a Tell Mabruk. Non mancano peraltro ampi squarci
sulla storia, gli insediamenti, la cultura materiale delle società
della Siria del quarto millennio a.C. Non è possibile, e non sarebbe
corretto, riepilogare la storia e rivelarne gli intrecci, quasi
da giallo, per non togliere il piacere della sorpresa ad un romanzo
che si legge molto piacevolmente, grazie ad un ritmo sempre avvincente
e coinvolgente e ad un linguaggio vivace, dominato da una carica
di piacevole ironia che caratterizza lo stile di questa brava
scrittrice appassionata di archeologia.
Giuliano
Volpe *
Archeologia
Viva Anno XXII N. 97, Gennaio/Febbraio 2003
*docente
di archeologia, università di Foggia
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