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O io o lui. Non ho scelta. Devo proprio schiacciarlo,
perché io da sola con uno scarafaggio vivo non ci dormo, punto e basta. Il difficile
sarà beccarlo, va troppo svelto, corre verso l'armadio, se riesce a infilarsi
là sotto... Ha deviato! Il cretino ha deviato verso un mobiletto. Ci si è nascosto
dietro. Ma è un mobiletto liberty, tutto gambe e volute, leggerissimo.
"La prima volta che vieni a Aleppo,
sul serio? e allora una notte al Baron te la devi concedere. Prima o poi lo
restaurano: ma per ora, vedrai, vedrai, Grand Hôtel d'altri tempi intatto, ancora
tutto quanto come quando ci scendeva Lawrence d'Arabia da ragazzino" mi
ripeto imitando le erre mosce della ricercatrice Gentilomo. Infatti. Nella hall
ci sono ancora appesi i manifesti della Thomas Cook & Sons, perfettamente
scoloriti, ed è certo che le strisciate lungo lo scalone le hanno fatte i bauli
di Agatha Christie che da vecchia ci veniva a dormire col marito archeologo
giovane. Ma anche nella mia stanza singola - che non è al primo piano nobile,
cioè al secondo contando il pianoterra, ma su al terzo, dove mi sa che allora
ci spedivano le cameriere e i maggiordomi al seguito - l'arredamento non è mai
stato sfiorato da un'idea di modifica. Sarà d'epoca anche lo scarafaggio? Io
lo ammazzo lo stesso. "Invece noi abbiamo prenotato nella nostra solita
stamberguccia, molto pulita per la verità, da Madame Olga", eh già, ottocento
lire siriane appena contro i quaranta dollari che a me costa aver fatto il bagno
in una vasca senza tappo anche se con le zampe di leone e con l'antico smalto
arabescato di colature di ruggine tono su tono con l'acqua bella calda. Il tappo
ce l'avevo messo io, compiaciutissima di aver pensato a portarmene uno di quelli
universali, e mentre mi asciugavo e prestavo un orecchio benevolo a un concerto
per scarichi e tubature che, tutto sommato, non stonava con un ambiente così
crepuscolare, sono tornata in camera e ho girato la chiavetta dell'interruttore.
Nella luce giallastra, il movimento rapido e marrone sulle piastrelle quasi
mi fa strillare. Li odio, gli scarafaggi! E qui non siamo sul campo e non sono
tenuta a far finta di niente per non sembrare una piattola agli altri. Siamo
io e te, brutto intruso: ora mi avvolgo meglio nell'asciugamano, stringo la
presa sulla mia copia segreta della Guida alla Fotografia Archeologica per
Principianti e ti ammazzo. Prima devo spostare questa specie di tavolino
tutto sinuoso con una ribaltina piena di minuscoli cassetti: sarà una pettiniera.
O uno scrittoio? Comunque è molto più carino dell'armadio e del letto, pesantissimi,
massicci, credo roba degli anni Trenta... Ohi. Scostato l'affarino liberty dal
muro, non vedo traccia dello scarafaggio. C'è solo un ragno pallido, anzi c'era:
schiacciato e via, così impara a starsene in agguato per poi uscire di notte
a esplorare la stanza e me, no grazie, niente zampette in faccia, almeno qui.
Dopo tre notti che ho passato a rivoltarmi dentro il mio sacco a pelo sudaticcio
in attesa dell'alba e della prossima sfacchinata su e giù dai cantieri di scavo,
avrò diritto a dormire tranquilla, o no? Siamo venuti a Aleppo apposta, per
la meritata vacanza del venerdì. Perciò riaccosto il mobiletto al muro e, con
il libro pronto a giustiziare ogni insetto nemico, mi metto cautamente a estrarre
un cassettino dopo l'altro.
Nessuna bestia. Tutti i ricettacoli sono
vuoti e puliti: foderati, perfino. Chissà quando, qualcuno perse tempo a rivestirne
il fondo di una carta bianca che adesso è color ocra a gruppetti di macchioline
scure. Guardo meglio. Sotto il velo di polvere finissima, sembrano quasi righe
di scrittura. Ma va'? Vuoi vedere che scopro qualcosa di eccitante? Un manoscritto
inedito della Christie, magari... Mollo il libro e con tutte e due le mani tiro
fuori un cassetto e sollevo pian piano uno dei fogli. È sottile, friabile, in
un angolo un pezzetto si stacca, ma la carta è di qualità stupenda, filigranata,
oh sì: vecchia carta da lettere che con il tempo è diventata quasi trasparente.
Quello che sto guardando con il fiato sospeso è soltanto il rovescio, su cui
affiora un fantasma di inchiostro color seppia. Giro il foglio. È una lettera
davvero. Scritta in un'antiquata calligrafia tutta occhielli e svolazzi, con
energici tratti di penna che qua e là cancellano qualche riga. È in inglese,
ma posso decifrarla.
Baron's
Hotel, Aleppo |
marzo 1916 |
Mia
carissima Margaret,
sorellina,
uccellino. Il tuo pacchetto è finalmente arrivato e - mi vergogno
ad ammetterlo - mentre mi provavo quelle meravigliose sottovesti
francesi e l'assolutamente perfetto abito nero mi sono comportata
come una debuttante. Riesci a immaginare la tua fiera sorella maggiore
che salta e ruota per tutta la stanza come un derviscio in estasi?
Se avessi avuto ancora la mia pistola, avrei sparato al soffitto
per la felicità.
Purtroppo i pizzi sono stati molto danneggiati dal
viaggio, ma consideriamoci fortunate: la combinazione intima è
in condizioni eccellenti. La verità è che ne avevo veramente bisogno,
perché, come se non bastasse il resto, le ultime piogge hanno ridotto
il mio già esiguo guardaroba a una lacrimevole collezione di straccetti,
del tutto impresentabile: e qui, tra gli ufficiali di von Sanders,
gli ingegneri della ferrovia e lo staff del Pasha, ci sono ricevimenti
quasi tutte le sere.
A proposito: il Verme è ancora qui. Non appena ha
saputo del mio ritorno ha ricominciato a importunarmi, stavolta
con una intera cassa di champagne! Insopportabile, non trovi? E
ho anche dovuto fingere di gradire l'omaggio - tu sai perché.
Tieniti forte, ora ti confesserò il peggio: soltanto dopo aver
riposto tutto il mio nuovo corredo sono stata colpita dal pensiero
di quanto tempo prezioso tu devi aver sottratto ai tuoi doveri
per le mie frivolezze. Non mi trovi tremenda? Ma è l'Oriente. Si
diventa così, pronti a gioire come bambini e ad intristirsi, anche,
come bambini al primo disappunto.
Mi
dispiace sapere che anche tu hai dovuto affrontare la terribile
poltrona del dentista. Sarà il nostro destino? Mi azzarderei a supporre
che non a caso nel nostro stemma di famiglia figura, anche se sotto
mentite spoglie, un ponte. Ma non temere: del mio non si è mai
accorto nessuno neanche alla distanza minima permessa dalla decenza
- e talvolta molto più vicino di così - dunque non vedo perché
tu dovresti angosciarti del tuo. E ora che, come spero, ti ho strappato
un bellissimo sorriso, veniamo alle cose serie.
Prova
ancora, ti prego. Papà deve convincersi a mandarmi due righe, o
almeno un telegramma: non ammetto una tale sfiducia e ostinazione
nei miei confronti!
[segue
una lunga frase cancellata] Quello
che devi far entrare a tutti i costi nella sua Testa Antidiluviana
è che io non soltanto mi sento ma Sono realmente Utile a Tutti Noi
- di più non posso dire, lo capisci? - e che anche in circostanze
diverse sarei Lieta di [frase
cancellata] unire
le mie sorti a colui che Papà rozzamente chiama "il beduino"
e che in realtà ha più quarti di nobiltà di noi - anzi no, sarà
meglio che tu non tocchi affatto questo tasto, lo sai com'è Papà:
ripetigli soltanto che Sheikh Zafar ibn Rashid al-Aswad è persona
gradita a Lord C.
E che tanto deve bastargli. Per
te sola, uccellino, aggiungerò, da sorella a sorella, da donna a
donna, che i cancelli del giardino segreto sono aperti e la fortezza
è conquistata. Margaret cara! nel mio vagabondare ho acceso molti
fuochi, ma nessuno mai mi è parso tanto brillante quanto quel tizzone
d'inferno. Ci crederesti? Bene, che tu ci creda o no, affrettati:
perfino io non posso tener testa a questa situazione troppo a lungo
e se Papà non si decide a muoversi la mia lettera di credito rimane
carta straccia. Se non vuole scrivere a me, scriva almeno al suo
banchiere.
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Juliet |
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Però. Altro che cameriere e maggiordomi,
mi dico, la signora era una Mata Hari. E mi si snoda subito nella mente tutta
una carovana di domande: perché lasciare non spedita una lettera simile? difficoltà
di comunicazioni per la guerra del '15-'18? o questa qui che ho in mano è una
minuta che è stata messa in bella copia prima di spedirla? e avrà avuto risposta?
e il tizzone d'inferno sarà poi riuscita a sposarlo, Juliet? il padre le avrà
dato il consenso? o almeno i soldi? e la pistola che dice che non ha più, come
mai ce l'aveva? E soprattutto: a me, mia sorella mi chiamerebbe mai "uccellino"?
Penso di no.
Ma a questo punto ho già tirato fuori tutti
gli altri cassetti e sto staccando meticolosamente un foglietto via l'altro.
Sono sei in tutto: uno è di carta più spessa e più grigia e, ohi ohi, è scritto
in arabo; uno è bianco; altri due sono imbrattati da ghirigori e disegni e numeretti
del tipo che si traccia sovrappensiero; poi compare un foglietto leggibile.
Mi sembra scritto con lo stesso inchiostro e dalla stessa mano della mia prima
lettera. Lo afferro avidamente. E per niente. È in tedesco.
«Cettina Schwarz?» mi interroga una voce
cavernosa. Ma che è? Non sarà che frugando tra queste vecchie carte ho evocato
qualcosa? D'istinto le raduno in un mucchietto e mi guardo alle spalle, vergognandomi
ma non si sa mai. La stanza sembra vuota come prima, le mie borse riposano tranquille
sul copriletto a funebri ghirlande di fiorellini stinti e anche le tende pendono
esanimi ai due lati della portafinestra. Non c'è un fiato di vento, perciò è
logico che io stia sudando freddo. E poi, insomma, è evidente che gli spiriti,
a dispetto di tutti gli sforzi della direzione dell'albergo, non esistono. Ecco.
Non mi sono sentita chiamare. Avevo ancora dell'acqua nelle orecchie, o a farmi
strasentire sarà stata la mia solita coda di paglia sul fatto che il tedesco
non lo so. Ma, col cognome che mi ritrovo, non imparare il tedesco era l'unica
forma di fuga praticabile, quando ero a scuola. Poi ne ho trovate altre, tante
di quelle altre che studiarlo mi è passato di mente...
«Madam Cettina Schwarz!» e dagli.
No, però c'è davvero qualcuno che mi chiama, è la voce di un uomo, è fuori dalla
porta, e solo adesso sta cominciando a bussare, il pasticcione. Prima si bussa
e dopo si chiama, no? mica il contrario! che poi si rischia di terrorizzare
la gente e suscitare sensi di colpa a vuoto...
«Arrivo!», giusto il tempo di far sparire
le carte nella tasca più vicina della borsa più a portata di mano, quella delle
macchine fotografiche, ohi ohi, perché l'ho fatto? ora devo rimettere a posto
i cassettini, cercare la vestaglia che non la trovi mai quando ti serve, infilarmela,
e apro. Sul pianerottolo c'è un fattorino piegato a squadra. Mi sbirciava dal
buco della serratura? Ma se avrà ottant'anni per gamba! Mentre io interdetta
gli fisso la nuca tartarughesca e il dorso dell'annosa giacca rossa, il vecchio
striscia i piedi avanti e indietro un paio di volte, simulando un battito di
tacchi. No, non sbirciava: o è un'artrosi avanzata, o io sono oggetto di una
deferenza molto all'antica. La voce d'oltretomba o quasi, catarrosa, intervallata
da mancamenti di fiato che scandiscono ogni singolo attacco di parola come se
li scrivessero in lettere maiuscole, mi sta annunciando di sotto in su: «I Dottori
Italiani Attendono Madam Cettina Schwarz Nella Saletta».
La cena con i miei archeologi
di Parma! Devo correre... Ah, già, la mancia. Il fattorino da
museo si è fatto quattro rampe di scale senza ascensore, alla
sua età, ma non poteva telefonare? La mancia, certo. Frugo nel
borsellino degli spiccioli, poi ci ripenso e cerco il portafoglio
dei dollari, ma sì, posso pagare in valuta pesante - un biglietto
da uno - questa soddisfazione di sentirmi apostrofare con un «Thank
You, Madam» come se fossi anch'io una viaggiatrice con le
pistole e i pizzi e gli sceicchi misteriosi di tanto tempo fa.
Carmen
Covito
La rossa e il nero
©
Mondadori 2002
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