Io, Antonio Gades, dico che la cosa
più grande che esiste al mondo è la libertà. E per la libertà
bisogna lottare, perché non te la regala nessuno. Nella mia
"Carmen Story", in fondo, è di questo che si tratta. Ne hanno
fatto spesso un personaggio frivolo, ma Carmen non ha niente
di frivolo! è una donna che si fa rispettare dagli uomini, e
va con gli uomini, e non crede nella proprietà privata dei sentimenti.
Quando ama, ama e quando smette di amare, smette di amare. Pur
di non perdere la sua libertà, si precipita verso la morte:
la morte è presente e visibile fin dall'inizio, non arriva all'improvviso.
Carmen sa che la uccideranno, ma per lei è molto più importante
questo senso, così nobile, della libertà. No, non è frivola
e non è sciocca! è una ribelle. Contro determinate situazioni,
e contro determinate classi.
Proprio
perché la vediamo così, Carlos Saura ed io ci siamo rivolti
alla Carmen di Mérimée, e non a quella di Bizet, quella con
i lustrini. Prova ne sia che utilizziamo la musica dell'opera
solo dove vogliamo e come vogliamo: precisamente come contrappunto
alla nostra musica popolare. Non è una decorazione, ma un contrasto
che sottolinea la forza dei nostri silenzi ritmici. È stato
molto arduo, all'inizio, affrontare questo grande topos retorico.
Ho visto molte volte la Carmen presa troppo sul serio, con risultati
francamente ridicoli. Nel film, e nel balletto, c'è una scena
in cui noi stessi mettiamo in burla il topos. Ma è perché anche
questo fa parte della nostra cultura: noi nel flamenco, quando
stiamo insieme, quando ci stiamo divertendo, immediatamente
ridiamo di noi stessi, delle nostre stesse virtù e dei nostri
stessi difetti: mettiamo il mondo alla rovescia, e diventiamo
i pagliacci di noi stessi. Se poi vogliono riderne anche gli
altri, bene, sono liberi di farlo. Io però, ogni volta che ho
lavorato nella Carmen di Bizet, non sono mai sceso a compromessi.
Ho avuto la fortuna di trovare quasi sempre gente che mi ha
dato retta. Per esempio, nella Carmen con Giancarlo Menotti
e Thomas Schippers, ho fatto la scena della taverna nella maniera
più realistica, come se fosse il Balletto Antonio Gades di sempre.
E lo stesso alla Scala, con Mauro Bolognini. Prostituire la
cultura di un popolo è l'ultima cosa che possa fare un uomo.
Tu puoi prostituire quello che ti pare, se si tratta di proprietà
privata: ma la proprietà collettiva, la cultura di un popolo,
no. La ricchezza popolare del folklore spagnolo è ciò che mi
è servito di più, nella mia formazione di coreografo. Bisogna
imparare a conoscere il folklore. Quasi tutti i coreografi contemporanei
adesso devono andare ad oriente per cercare forme nuove, e noi
invece le abbiamo nel nostro paese Senza falsa modestia né modestia,
credo che la Spagna sia uno dei paesi più ricchi del mondo in
folklore: ad ogni cinquanta chilometri cambiano i costumi, cambia
la musica, cambiano gli stili di danza, cambiano i canti, cambiano
i miti, cambia tutto. Purtroppo, in Spagna la gente della danza
somiglia spesso al cavallo del picador, che non vede altro che
quello che ha davanti. A me è stato più utile avere rapporti
con gente di altre discipline, pittori, poeti, registi di cinema
e di teatro, piuttosto che con i danzatori, che se ne stanno
volentieri chiusi nel loro guscio come lumache. Non so da cosa
dipenda questa situazione, ma non vedo molte compagnie, e quelle
che ci sono non escono dalla Spagna, non hanno repertorio: e
questo è grave. La danza c'è, ma non si muove. E l'insegnamento
è lasciato al caso. Io ho avuto la fortuna di studiare con una
grande maestra, Pilar Lopez. A lei devo praticamente tutto.
Perché io non avevo, come si dice, la danza nel sangue.
Non sono
del Sud e non sono gitano. Sono nato a Elda, in provincia di
Alicante, e nella mia famiglia non c'è mai stato nemmeno un
artista. Sono sempre stati tutti operai. Io, l'unica cosa che
avevo nel sangue era l'anemia. Mio padre era comunista. Al momento
della guerra, nel 1936, quando mia madre era incinta di me di
otto mesi, partì volontario per la difesa di Madrid, e fu ferito
gravemente. Dopo la guerra, chiaro, noi eravamo i perdenti.
A 11 anni dovetti lasciare la scuola per aiutare la famiglia.
Cominciai a lavorare come fattorino da un fotografo, Llenes,
e poi da un altro fotografo, Campua, e in seguito, a volte,
nelle officine. Volevo studiare e non potevo, volevo svilupparmi
e diventare qualcuno, ma non c'era modo. Il figlio di un operaio
deve essere operaio e deve generare figli di operaio... Io provai
di tutto per uscire dalla miseria e dalla fame. Ma a noi non
lasciavano altra possibilità che diventare torero, o calciatore,
o pugile, o ciclista. Essere un medico, essere un avvocato,
essere un matematico, no, questo non poteva succedere, questo
non spettava ai figli degli operai. E fu così che, per caso,
capitai nella danza. Cominciai
per fame.
Per fortuna, mi vide Pilar Lopez
e mi prese nella sua compagnia. Con lei studiai tutte le discipline
del ballo popolare dello stato spagnolo, come la jota navarra,
il flamenco, le danze di scuola, quelle catalane, quelle basche:
tutto il folklore. E, contemporaneamente, studiavo danza classica.
Però io non sono mai stato un ballerino classico, anche se ho
danzato con Carla Fracci e con molte altre ballerine classiche.
Se l'ho fatto, è sempre stato in ruoli di carattere, come nella
"Pavana per una infanta defunta" di Ravel con la Fracci o nel
passo a due "Ad libitum" con Alicia Alonso. Ho fatto perfino
"Giselle" nel ruolo di Ilarion, che è un ruolo di carattere.
In realtà, la danza classica per me è sempre stata una disciplina
imposta, non mi ci sono mai sentito a mio agio. Il ballo che
amo è il flamenco. Prima ballavo tutto il folklore, ma a poco
a poco, senza quasi accorgermene, sono andato verso il flamenco
e ho abbandonato tutto il resto.
Con il flamenco mi sento totalmente
compenetrato: non solo è lo stile con cui mi esprimo, ma mi
ci identifico. Forma parte dell'allegria e della tristezza...
forma parte di me spontaneamente. È un'estetica che va con me.
All'inizio, tutte le mie coreografie erano astratte. Poi un
giorno dissi, bene, vediamo se sono capace di raccontare una
storia. E leggendo leggendo, andavo e venivo da un classico
all'altro, e finii per fermarmi in Garcia Lorca. Perché il mio
mezzo di espressione era il flamenco, cioè la danza andalusa,
il canto andaluso, e l'Andalusia di Lorca era quella che piace
a me: non quella pittoresca, ma quella arida, secca. A Lorca
ero arrivato già da ragazzino. Avevo quindici anni ed ero appena
entrato nella compagnia di Pilar Lopez; dato che mi faceva male
un dente, lei mi mandò da un dentista amico suo. Il dentista
parlando piglia e mi dice: "Tu conosci Lorca?". Io di Lorca
non avevo mai nemmeno lontanamente sentito parlare. Non avevo
nessuna cultura, non frequentavo nessuno, ero il figlio di un
operaio dei quartieri poveri e basta. Lui mi dà un libro e mi
fa: "Guarda, però non lo dire a nessuno", e questo mi sconvolse,
perché fin da piccolo io avevo sempre sentito ripetere "non
lo dire a nessuno che tuo padre è rosso, non lo dire a nessuno
cha abbiamo le foto della guerra, non lo dire a nessuno di questo,
non lo dire a nessuno di quello..." ma che me lo raccomandassero
per un libro non mi era mai successo. La cosa mi colpì e mi
meravigliò. E quando lo lessi (erano i poemi gitani) mi sembrò
incredibile che quella meraviglia non si potesse leggere, che
fosse un libro proibito.
Così, cercando una storia da raccontare,
studiai le opere di Lorca, e mi resi conto che "Bodas de sangre"
conteneva tutti gli elementi, tutte le tradizioni della cultura
mediterranea. C'erano la passione erotica, la gelosia, e la
donna che quando ci sono problemi la prima cosa che fa è portarti
via i figli, e c'era il senso dell'onore... e il fatto che,
quando un padre muore, automaticamente la madre mette il figlio
maggiore al posto del padre, ma in un modo un po' strano, con
un amore che oltrepassa i limiti, quasi incestuoso. E c'era
la morte, c'era il popolo che balla e canta... c'erano tutti
gli elementi culturali. Così cominciai a studiare l'opera e
ci stetti sopra quasi due anni, leggendo, e togliendo, e aggiungendo,
e trasportando le cose da una parte all'altra, e scarnificando...
eliminai molte cose, forse anche troppe. Sono sicuro che nessun
coreografo si perde, per esempio, la Mendicante e la Luna. Ma
io volevo eliminare tutto il barocco e andare dritto al nocciolo,
alla problematica dei personaggi. Per mettere in scena "Nozze
di sangue" scelsi due stili di ballo, quasi due stili culturali:
per le scene di amore e di morte quello che si può chiamare
surrealismo, e l'iperrealismo per le scene di vita quotidiana.
Mi pare di aver fatto un buon lavoro.
Eravamo nel 1974, e io avevo consolidato
già da tempo la mia compagnia, con molti degli elementi che
sono ancora oggi con me, come Cristina Hoyos. Poi però, nel
1975, abbandonai la danza. Ero qui in Italia, precisamente a
Bologna, quando mi dettero la notizia che Franco aveva firmato
la sentenza di morte per cinque degli undici antifranchisti
condannati dai tribunali speciali nel settembre del '75. Mi
sentii pieno di vergogna di stare là, a farmi bello, a truccarmi
per uscire a ballare, mentre cinque compagni, cinque combattenti
contro il fascismo, morivano fucilati. Provai un profonda senso
di colpa. Collettivo, ma di colpa. Allora smisi di ballare.
Ricevere la notizia e smettere di ballare fu tutt'uno. Sciolsi
la compagnia e me ne andai in un paesino vicino al mare, Altea.
Ci rimasi fino al 1978, quando ripresi a ballare: in questa
decisione mi aiutarono molto Alicia Alonso e gli altri compagni
del Balletto Nazionale di Cuba. Mi convinsero che ci sono molte
maniere di lottare, e che io non avevo il diritto di fermarmi,
perché c'era molto da fare e la migliore arma che io possedevo
era la danza. Mi restituirono la fede nella lotta, e tornai
a ballare. Mi avevano invitato a Cuba, e montai per loro "Bodas
de sangre"; facemmo insieme una tournée negli Stati Uniti.
Poi fui chiamato qui, in Spagna,
per dirigere il Balletto Nazionale Spagnolo. O, a dirla meglio,
per crearlo, perché non esisteva. Dovetti cercarmi perfino la
sede, e passando in rassegna i locali inutilizzati del Demanio,
trovai un meraviglioso edificio del Settecento, un antico ospedale
nella zona di Atocha (la vecchia stazione ferroviaria vicino
al museo del Prado). L'ospedale era completamente abbandonato,
semidistrutto. Nessuno aveva mai pensato a restaurarlo, e solo
quando io ci impiantai lo studio e sollevai uno scandalo cominciarono
a rendersi conto di quanto era prezioso. Adesso vogliono farci
il Centro Culturale Regina Sofia, ma io allora dovetti camminare
sulle ossa che coprivano i pavimenti. Come direttore artistico,
cominciai col recuperare la nostra ricchezza storica: del balletto
spagnolo si era perduto tutto. Senza videotape, e senza nemmeno
film, della Argentina, della Argentinita, di Vicente Escudero
non era rimasto niente. Così, la prima cosa che feci fu di chiamare
uno per uno i grandi, le figure antiche come Mariemma, Rosario,
Antonio, Pilar Lopez, e chiesi a ciascuno le coreografie più
significative della loro carriera. Ci fu gente che non capiva
come mai cominciassimo con i vecchi. Signori, dissi, se volete
mettere su una biblioteca non cominciate comprando gli ultimi
romanzi usciti. Senza un punto di partenza e di paragone, come
possiamo sapere se avanziamo o no? Poi commissionai opere a
coreografi giovani, ancora sconosciuti . Io però rifiutai decisamente
di ballare, per poter lasciare spazio a figure nuove, a danzatori
giovani. Così, in sei mesi, provando in posti terribili, la
compagnia cominciò a funzionare. Montammo tre programmi e li
portammo sulla scena in Spagna e all'estero, in Italia, al Festival
di Hong Kong, in America. Lavorammo bene. Credo che siamo stati
l'unica compagnia pubblica al mondo che ha dato benefici allo
stato: agli altri non bastano le sovvenzioni, e noi invece fruttammo
denaro. Sia culturalmente che economicamente, fummo redditizi.
Però, nel giro di tre anni io venni buttato fuori.
Il fatto è che mettere sotto contratto
Antonio Gades non vuol dire tappargli la bocca, e tantomeno
cambiargli gli ideali. Ed è chiaro che un direttore di Balletto
Nazionale che pensava - e parlava - di politica era molto scomodo.
Così ci fu un tale, Ricardo de La Cierva, che pare sia stato
messo lì apposta per sequestrare libri e film, e per buttar
fuori me. Credo che come ministro non abbia fatto altro. Io
sono stato anche contento, perché in quei tre anni in Spagna
si è licenziato un direttore di Balletto Nazionale, ma si sono
cambiati cento volte i ministri, in modo che, tirate le somme,
abbiamo vinto noi. Quello che mi è dispiaciuto è stato non poter
consolidare la grande esperienza di organizzazione che avevo
iniziato. Indipendentemente dal ruolo artistico di ciascuno,
ogni ballerino o ballerina aveva un incarico di responsabilità,
a rotazione. I maestri di danza preparavano ogni giorno un rapporto
sul comportamento degli allievi durante le lezioni, ma anche
gli alunni potevano fare rapporto sul comportamento dei maestri.
C'erano riunioni periodiche di critica e autocritica, ci sedevamo
e le cose si dicevano e si risolvevano faccia a faccia, non
dietro le spalle. In questo modo non abbiamo mai avuto problemi,
e tutti si impegnavano. Quando c'era un responsabile, poteva
essere anche un ragazzino o una ragazzina, ma era il responsabile
per quel giorno e tutti, dal primo ballerino ai più grandi maestri,
lo rispettavano.
Si vede che anche questo non fu
gradito, in alto. Quando gli esseri umani si comportano bene
e c'è una organizzazione ferrea ma autogestita, certa gente
si sente male. Avrebbero voluto che io fossi un burocrate, un
capo, e che tutti si mettessero a tremare quando entravo. No,
là nessuno si metteva a tremare. E se c'era da tremare, non
erano sempre gli stessi quelli che remavano: per tutto, il bene
e il male, si faceva a turno. E tutti erano contenti. Quando
mi hanno licenziato, praticamente l'intero balletto è venuto
via con me per solidarietà. In seguito, abbiamo avuto dei problemi.
Avevamo formato una cooperativa, la GIAD, ma c'erano alcune
persone che non capivano bene che cos'è l'unione. Molta gente
crede che quando tutto è di tutti deve mancare il rispetto,
perché non si capisce chi è che comanda; e fanno fatica a mantenere
una disciplina. Io non sono nato per fare il dittatore. Se è
necessario, so anche esserlo, ma qui non si trattava di un problema
di stato. Era una cosa nostra, privata, e non ho voluto metterla
giù dura. Visto che si lavora, perlomeno si deve lavorare divertendosi,
non amareggiandosi. Così sono uscito dalla GIAD e ha riformato
la mia compagnia, il Balletto Antonio Gades. Anche questa è
una specie di cooperativa. Abbiamo una sede a Madrid, un piccolo
garage che abbiamo trasformato in laboratorio; ci autofinanziamo,
ci autogestiamo e viviamo del nostro lavoro. Siamo una trentina
di persone, e ognuno di noi ha una doppia funzione: oltre a
ballare, per esempio, Juan si occupa dell'amministrazione, Cristina
degli alberghi quando siamo in viaggio, uno dei "cantaores"
è incaricato dei bagagli, l'altro delle prove, e così via.
Con Carlos Saura la collaborazione
è cominciata perché un mio amico, Miguel Ropero, vedendo il
balletto "Bodas de sangre" pensò che era un peccato non conservarlo.
Ma né lui né io avevamo idea di farne un vero film: pensavamo
a una documentazione per un museo, per la televisione. Poi un
giorno lui arriva con Carlos Saura, e Carlos mi dice: "Guarda
che questo pazzo vuol farmi dirigere il film. Ma se è già tutto
fatto, cosa vuoi che ci metta io?". Non aveva visto il balletto.
Lo vide, in una prova, e ne restò colpito. "Bene - disse - facciamo
il film. Io non voglio toccare niente di quello che c'è, ma
voglio dare al pubblico la stessa impressione che ho avuto io".
E ci è riuscito genialmente: nel film la macchina da presa non
è semplicemente un testimone, no, la macchina sente. Era la
prima volta che lavoravamo assieme, anche se eravamo amici da
sempre. Prima, io pensavo che i suoi film andassero per sentieri
molto diversi dai miei; poi mi sono accorto che il mondo di
Carlos è anche il mio, quel mondo che viene fuori dai suoi film,
con i personaggi che non sono niente, non sono nessuno, perché
noi nella nostra generazione non abbiamo potuto essere altro
che nessuno.
E allora abbiamo cominciato con
la Carmen. Qui il processo è stato inverso. Non siamo partiti
da una creazione già esistente, ma abbiamo pensato direttamente
al cinema. Una volta terminato il film, ci siamo detti che se
ne poteva fare un balletto, e abbiamo creato il balletto. Sempre
lavorando a due. È stato una specie di matrimonio in cui ciascuno
dei due ha messo il cento per cento, cioè tutto quello che sa.
Perciò nel cinema diciamo che è Saura-Gades, e a teatro è Gades-Saura,
e questa è tutta la differenza. Il lavoro è andato bene, e ci
hanno anche premiati. Ma, sui premi io ho molti dubbi. Un atleta
forse, sì, lo si può premiare perché corre più in fretta degli
altri i cento metri: è una cosa materiale, lo si vede, si vede
che corre più veloce degli altri che sono rimasti indietro.
Ma in campo artistico, come si fa a dire che questo è meglio
di quello? Per me, un chilo pesa un chilo, e se pesa un chilo
e cento grammi è perché la bilancia non funziona. Quando si
dà un premio, poi c'è sempre qualcuno più valido che resta senza.
A me, per esempio, hanno dato la medaglia d'oro delle Belle
Arti, in Spagna; ma alla mia maestra, a lei che mi ha insegnato
tutto quello che io so fare adesso, a lei non l'hanno data.
Perciò non credo molto ai premi. L'importante è aver fatto il
lavoro ed esserne contenti Se mi danno un premio, d'accordo,
il sistema in cui viviamo è questo: ma non perderei mai un giorno
di lavoro solo per andare a ritirarlo. Ora stiamo presentando
il balletto; ma la collaborazione con Carlos continuerà anche
in futuro.
Stiamo pensando di aggiungere a
"Bodas de sangre" e a
"Carmen" una terza opera, per fare una trilogia. Non sappiamo
ancora che cosa sarà. Prima di tutto, dobbiamo prendere il toro
per le corna e decidere se trattare un classico, o un mito,
o costruire una storia nostra, originale. Non lo sappiamo. Potrebbe
essere un don Chisciotte. E in questo caso, non sarebbe certamente
il don Chisciotte così com'è: per completare il trittico non
possiamo fare un classico in costume, ci serve un'ambientazione
contemporanea. Può essere questo. O può essere un'altra cosa.
Non so. Il fatto è che io sono molto lento. Sono più lento del
cavallo dei cattivi, quello che nei film western si fa sempre
raggiungere dal cavallo del buono Forse ci sono dei creatori
che ogni anno creano una cosa nuova. Ma secondo me si rischia
di ripetersi, e di non creare nulla. Io credo che i cambiamenti
vengono dai cambiamenti stessi della vita. Quando fa una creazione,
un essere umano si vuota, e per tornare a creare deve prima
riempirsi. Quando terminai "Bodas de sangre" tutti mi dicevano
"fa' qualcosa", e io non potevo fare niente. Ora con la Carmen
mi capita lo stesso: "Che cosa farai adesso?". Adesso? Adesso
io sono vuoto come un tamburo. Tutto quello che so, tutta la
mia esperienza, tutta la mia vita sono stati messi nella Carmen.
Ora ho bisogno di avere nuove esperienze, di scoprire nuovi
colori, nuove pitture, nuove poesie e nuova musica, nuova vita.
E tra quattro o cinque anni, non so quando, non mi importa quando,
farò qualche altra cosa.
Antonio Gades (testimonianza
raccolta da Carmen Covito)
Pubblicato
su "Panorama Mese" anno 3 numero 22, Giugno 1984
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Nota
Lo spettacolo che completò la trilogia di film e balletti non
fu poi un don Chisciotte ma "El amor brujo" (1986, "L'amore
stregone", da Manuel De Falla, presentato in forma di balletto
nel 1989 con il titolo "Fuego"). Alla letteratura spagnola Gades
tornò a rivolgersi per la creazione del suo ultimo balletto:
"Fuente Ovejuna" (1994), tratto dall'omonimo dramma di Lope
de Vega.
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