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L'intervista
di Ludina Barzini
(estratto da "Il Tempo", domenica 9 novembre 1997)
Carmen
Covito regala un cuore al suo computer
Nata a Castellammare di Stabia (Napoli) 49
anni fa, la Covito si è laureata a Napoli con una tesi su
Schopenhauer. Una tesi che lei stessa definisce molto sessantottina
perché si trattava di un lavoro sui rapporti tra il filosofo
tedesco e la filosofia indiana ("una roba proprio campata in aria",
secondo la Covito di oggi). Va poi in Spagna dove segue corsi di
lingua e conosce uno studente giapponese e si sposa. Hanno vissuto
a Madrid, a Brescia, con soggiorni a Tokyo, e dal 1989 Carmen vive
a Milano. Il suo primo libro è stato un best seller: "La
bruttina stagionata" era diventato di moda, c'è stata anche
una versione cinematografica. Lei ha dovuto evitare di inchiodarsi
in quel marchio e ha voluto proseguire la ricerca in altri mondi,
perché le piacciono le situazioni di contaminazione di mezzi
espressivi.
- Carmen, è stata sposata per 18 anni con una persona di
cultura così diversa dalla sua: cosa ha imparato?
Oggi sono una single di ritorno perché sono divorziata. Ma
la cosa interessante, e la sfida, era proprio in quella differenza.
Io non butto via niente della mia vita: tutto mi è servito,
non ho rimpianti e sono contentissima di aver fatto questa esperienza.
Essere sposata con un giapponese significa: imparare a sentirsi
alieno. Attraverso mio marito io ho imparato a mettermi nei panni
dello straniero: quando ero a Tokyo ero straniera io, quando lui
è in Italia è sempre riconoscibile come alieno...
Però noi italiani abbiamo una specie di snobismo nei confronti
di certe culture, e quella giapponese è considerata chic
e all'avanguardia...
- Cosa le è più piaciuto della cultura giapponese?
Una delle cose che ho preso, e che utilizzo anche nella mia scrittura,
è il gusto della contaminazione. Perché i giapponesi
mescolano tutto, con il massimo empirismo, senza farsi problemi
rispetto all'origine, o al fatto se sia corretto filologicamente
o altro, tanto che il Giappone è un laboratorio multimediale
in tutti i sensi, proprio a livello di vita quotidiana. Tutto si
mescola, il vecchio e il nuovo.
- Com'è nata l'idea per questo nuovo libro?
Ci sono delle immagini che mi hanno perseguitata tutta la vita e
che avevano bisogno di essere inserite in una storia. Una di queste
è l'Artemide di Efeso nel Museo Archeologico Nazionale di
Napoli: è una specie di madonna arcaica, nera perché
è in basalto e alabastro... La sua abbondanza di seni - che
a me fanno un po' senso - rappresenta l'immagine della grande madre
mediterranea, e io mi sono chiesta come integrare questo concetto
con la mente delle donne contemporanee. Cioè, che rapporto
ci può essere fra questo senso della fertilità, della
maternità un po' selvaggia, con le nuove tecnologie. Mi è
quindi venuta in mente questa storia dell'incontro tra il Sud del
mondo e il Nord-Est italiano. Ho scoperto una Silicon Valley nel
Veneto... mi intrigava molto l'idea di ambientare un romanzo tra
Desenzano, Vicenza, Verona e Padova. È proprio in questa
zona che si stanno sviluppando molte fabbrichette e aziende dedicate
alle nuove tecnologie, che però coesistono con una mentalità
molto spesso chiusa, razzista. Per questo ho ambientato lì
questa storia di un ragazzo tunisino di 19 anni, immigrato clandestino,
che si trova ad essere assunto in prova da una coppia di fratelli.
Lui, Ugo, è un chirurgo estetico e quindi incarna una certa
tendenza della nostra società che è quella di rifarsi,
di occuparsi del corpo come immagine; la sorella, Sandrina, è
invece una giovanissima imprenditrice, una specie di Bill Gates
in sedicesimo, che litiga con il fratello furiosamente... sono un
po' come il corpo e la mente, il materiale e l'immateriale... ma
in realtà sono estremamente legati.
- Come comincia la storia?
Il ragazzo tunisino, Nureddin, si trova da solo nella casa, piena
di computer che Sandrina ha piazzato ovunque. Il ragazzo tocca un
tasto e gli compare dallo schermo un'immagine di donna - bellissima,
perché è ricavata dall'immagine della Venere di Botticelli
con qualcosa rubato ad altri quadri. Comincia un dialogo e nasce
una storia tra l'agente elettronico e il ragazzo...
- C'è una morale?
Mah. Una delle cose che voglio dire con questo libro la dice Nureddin:
"in genere noi vediamo solamente le cose che ci aspettiamo di vedere".
Quando vediamo un nordafricano, tendiamo a vedere il nostro stereotipo
mentale, ed è perciò che ce li immaginiamo tutti uguali
fra loro. Questo Nureddin invece è un individuo, è
singolare, diversissimo, talmente diverso che è un clandestino
assoluto... voglio dire che è un clandestino anche nel suo
stesso paese. Nel romanzo, è un personaggio che ha un po'
la funzione della cartina di tornasole.
- Il linguaggio di questo romanzo è particolare, come mai?
Sì, alterno uno stile metallico a uno emozionale... Dietro
l'apparente scorrevolezza del testo c'è un grosso lavoro
di struttura e di linguaggio. Oggi si tende a mettere i libri nel
computer, io invece ho cercato di mettere il computer nel libro.
Una scrittura contemporanea deve cercare di assorbire, di integrare
nell'italiano letterario le forme dell'italiano colloquiale, gerghi
compresi. Quello del computer è interessantissimo, perché
è fatto di parole filtrate dall'inglese... si creano degli
strani verbi, tipo "scannerare" o "scannerizzare" o "scannare",
che a me diverte usare sfruttando il suo doppio senso...
- Che cosa pensa delle nuove tecnologie?
Sono molto curiosa degli sviluppi anche filosofici che ci portano
queste cose. Oggi si sta cercando, per esempio, di creare dei computer
che funzionano in base a logiche affettive, quindi non soltanto
razionali-matematiche come siamo ancora abituati a pensare. Ci sono
proprio delle ricerche in corso sull'affective computing, e trovo
interessante vedere come si possono mediare, a livello linguistico,
queste due cose: da una parte un linguaggio "freddo", tecnologico,
e contemporaneamente però anche un linguaggio "caldo", emozionale.
- Usa il computer per scrivere?
Ho cominciato a usarlo solo per scrivere. E in realtà non
mi sono collegata in Internet finché non ho finito il romanzo:
preferisco immaginare i luoghi e poi, dopo, andare a esplorarli.
Adesso ho lavorato per due mesi buoni a costruire un mio sito Web
nel quale presento il romanzo. Ho fatto un doppio percorso, insomma:
prima ho messo il computer nel romanzo e adesso ho messo il romanzo
nel computer.
La
recensione
di Giorgio Ficara
("Panorama" n°45, 27 novembre 1997)
Bizzarra
la storia di Nureddin
Romanziera eccentrica fra gli italiani,
o meglio indifferente agli italiani, Carmen Covito in effetti sembra
allegramente sottovalutare le regole del nostro - nazionale - gioco
letterario (da una parte i cieli della sera, e conseguenti "frissons"
irrefrenabili e sciali sentimentali, dall'altra le avanguardie,
le neoavanguardie, le neoneoavanguardie più o meno irascibili
e malintenzionate o organizzate).
Guardando altrove, e molto più indietro, la Covito può
concedersi strane libertà e bizzarrie: per esempio, riempire
una pagina di segni e "finestre" e posti di blocco come a un gioco
dell'oca elettronico ma anche sterniano, rifacendo e riaggiornando
sotto il profilo grafico la strada "tollerabilmente poco tortuosa"
dello zio Tobia nel Tristram Shandy. Ma può, in questo libero
mondo (un tunisino innamorato di una coltissima Dama-computer),
attribuirsi vecchi e nuovi limiti e obblighi narrativi: personaggi
anche verosimili e "profondi", un intreccio anche convenzionale,
esposizioni e ammaestramenti smerciati sottobanco - e benissimo
- secondo la formula del "romanzo con idee", scorcio o testimonianza
d'epoca (la nostra).
Dietro il luccichio e il crepitio di molte trovate e del molto "fantastico",
Benvenuti in questo ambiente è un libro preoccupato
del mondo, e attento a non scivolare via sulla schiuma attuale dell'onda,
a non smarrirsi nel noioso parnassianesimo contemporaneo.
Il protagonista Nureddin è un clandestino in fuga dalle cucine
dell'Hilton di Tunisi, seguito sulla scena italiana dagli occhi
obiettivamente carezzevoli dell'autrice. Ma dei deuteragonisti Ugo
e Sandrina, i padroni di casa, e di Nureddin, sappiamo tutto da
Nureddin stesso e in modo mirabilmente candido e sbalorditivo.
Lo ripeto: nonostante la compiuta dimestichezza col mezzo, nonostante
la ricreazione, nulla è soltanto "romanzesco" e lieve in
questo romanzo della Covito: umanità e sentimento del tempo
pesano gravemente e soavemente sul fondo.
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