Oggi, l'amore
di CARMEN
COVITO
Oggi, mercoledì, verso le tre del pomeriggio, mi sono accorta che
stavo cercando di parlare con me. Eh sì: telefonino cellulare nella
mano sinistra, cornetta del telefono da tavolo nella destra, avevo proprio
detto "pronto?" e me n'ero rimasta lì sciorinando un sorriso di circostanza
in mezzo ai due microfoni. Non si sentiva niente. Ho pensato: "Ma guarda,
non ci sono..." e mentre lo pensavo ho realizzato di colpo l'assurdità.
E mi sono allarmata. Ho lasciato cadere il cellulare sulla scrivania; poi,
tirandomi indietro e tenendolo d'occhio, ho allungato due dita e l'ho spento.
Comporre sul telefono da tavolo il numero di Werner, subito. Anche se non
è più il mio psicoanalista perché tre mesi fa si è
convertito alla meditazione trascendentale e ha smesso di esercitare, non
sapevo a chi altro raccontare la cosa. Ma il numero risultava occupato.
Così gli ho mandato un messaggio di posta elettronica urgente: "Sto
diventando matta, aiuto". Quello l'avrebbe visto di sicuro. E infatti, neanche
dieci minuti dopo, mi ha richiamata lui.
"Giulia, tesoro, tu dovresti innamorarti" ha detto a bruciapelo, "è
la cura migliore."
Okay, ho pensato io, questo qui non ha voglia di perdere tempo con me, okay.
Però, anche se non è più il mio psicoanalista, la sua
contabilità gliela sbrigo sempre io, gratis, e io sono la più
brava e costosa commercialista/fiscalista telematica sulla piazza, perciò
non mi poteva liquidare così.
"Ma per favore, Werner! Di chi vuoi che mi possa..."
"Hai ragione" fa lui, un po' troppo in fretta. "Allora, ti consiglio di
tenere una diaria, è la seconda cura migliore."
"Una diaria?" faccio io stupidamente. "Ma... le diarie si danno a chi è
in trasferta, mentre io non vado da nessuna parte..."
"Una diaria, tesoro: un diario al femminile. Afferrato? Comprati un quadernetto
e scrivici giù tutto. Fa miracoli."
"Scrivere? A mano? Ma..."
"Con una penna. Comprati anche la penna. O strappatene una, che così
fai prima. E adesso scusami, ocona mia bella, ma ho qui un giovane adepto
impaziente di cominciare la seduta di me..."
"...ditazione trascendentale" ho completato io automaticamente, però
forse i puntini sospensivi non c'erano e Werner aveva proprio voluto dire
"una seduta di me": appena prima che cadesse la linea, o che lui riattaccasse,
si era sentita come una risatina seguita da un urletto soffocato. Un giovane
adepto che soffre il solletico, già. Ma le trascendenze di Werner
non erano affari miei. Ho inserito la segreteria telefonica, il fax e il
servizio automatico di messaggeria, ho fatto una carezza di saluto al mio
fedele computer che ronfava, mi sono infilata la mascherina antismog e gli
occhialoni protettivi e ho fatto una corsa all'ipermercato qui all'angolo.
Bisogna sempre correre, quando si attraversa la strada. E' più prudente.
Almeno, così dicono le istruzioni governative per la vita all'aperto:
io, grazie al mio lavoro che può essere svolto tutto da casa, non
ho molti contatti con l'ambiente. Certo, mi rendo conto che con uno stile
di vita come il mio si rischia di restare un po' isolati... Ma su questo
Werner si sbaglia: io, quanto a storie d'amore, ne ho già avute abbastanza
con il mio ex marito: oltre alla mia con lui, c'erano tutte le storie sue.
Mai capito dove e come incontrasse tutte quelle altre donne. Dopo la separazione,
ho provato a conoscere qualcuno anch'io, via Internet, e un paio di volte
mi è sembrato di sentire un brividino, ma poi regolarmente la storia
si arenava sulla difficoltà di realizzare un incontro che non fosse
soltanto virtuale, perché io per me sarei stata anche disposta a
rischiare il tutto per tutto, ma mi sembrava giusto che il corteggiatore
di turno rischiasse prima lui quei quattro passi necessari: insomma, perché
diavolo avrei dovuto muovermi io per andare a incontrare uno che non si
sogna di muoversi per me?
Oggi però c'era un solo cadavere in mezzo alla strada, nemmeno tanto
fresco, e nessun cecchino sparava dai tetti, né all'andata né
al ritorno. Strano. La polizia dev'essere diventata improvvisamente più
efficiente, o magari è scoppiato uno sciopero dei terroristi. Sarebbe
ora: i telegiornali dicono che la gente non ne può più di
doverci lasciare la pelle anche nelle giornate di basso inquinamento. In
effetti, oggi fuori si stava benino: tenui raggi di luce foravano la nebbia
graziosamente. Ho raggiunto le casse dell'ipermercato senza essere stata
rapinata né picchiata. E ho perfino trovato il quaderno e la penna.
Giovedì
Una visita! Era soltanto la figlia della mia vicina di pianerottolo, ma
ricevere qualcuno è comunque una tale emozione che quando Samarcanda
- la povera bambina si chiama Samarcanda, forse per questo ha quel faccino
triste, come schiacciato sotto l'abbondanza di boccoloni biondi: infatti
poi mi ha chiesto se, per favore, non potevo chiamarla semplicemente Sam?
- quando Sam dunque è entrata, mi è scappata di bocca una
sciocchezza: "Sono in ordine?". A una bambina, figuriamoci! E poi mi ero
appena cambiata per la mia cena a lume di candela da sola. Ma nel vederla
mi è venuto in mente che Irene, la mamma di Samarcanda, fa la stilista
di moda: mi sarebbe seccato sfigurare.
"Sei trendissima: quella gonna frappata è la fine del mondo, i buchi
sono tutti giusti, giuro."
Avrà detto così per gentilezza: lei aveva un abitino neo-nostalgico
all'ultimo grido, in una deliziosa tela di sacco con applicazioni di patate
sintetiche. Ma sembrava sincera. Anzi, commossa: le tremavano stranamente
le labbra.
"Mi potresti prestare una mezz'ora di tempo-rete?" ha chiesto supplichevole,
"perché io devo fare i compiti e non posso, perché la mia
maestra elettronica è andata in tilt, perché la mamma si dev'essere
dimenticata di pagare l'abbonamento, perché la mamma è..."
e a quel punto la gentile, beneducata Sam si è trasformata in un
polipo singhiozzante. Si rotolava sul pavimento allungando braccia e gambe
dappertutto. Scalciava. Ho avuto un bel daffare a cercare di immobilizzarla
e di capire che cosa urlasse, intanto. A quanto pare, Irene è uscita
una settimana fa e non è ancora tornata. Ora mi spiego come mai c'era
tanta tranquillità. I muri qui sono così sottili che, di solito,
posso regolare l'orologio sulle litigate di Irene e Sam: basta che alzino
un po' la voce (una media di sette volte al giorno) e io sento tutto come
se ce le avessi in casa. Fino a stasera la bambina non si era preoccupata
perché, andando via, Irene l'aveva lasciata con molte scorte e aveva
anche avvertito che facesse la brava, non aprisse a nessuno e, al suo ritorno,
avrebbe avuto una bella sorpresa. Mi sa che la sorpresa, invece, sarà
bruttissima. Peccato. Anche se Irene l'ho intravista appena e poche volte,
la sua voce mi teneva compagnia. Mi mancherà. E oddio, certo, mancherà
soprattutto a sua figlia.
Dopo che si è calmata, abbiamo fatto insieme i suoi compiti di scuola.
Poco rassicuranti: si trattava di una ricerca sulle donne dei paesi non
industrializzati, e cosa non è venuto fuori dai data base! Miseria,
malattie, disastri naturali, uomini che la fanno da padroni obbligando le
donne a starsene tra donne, senza vita sociale, e con tutti quei figli morti
di fame... Quanto siamo più fortunate, noi! Per invitare a cena Sam,
mi è bastato impostare un raddoppio delle dosi sul quadrante del
mio Cuoco Perfetto. Durante e dopo il pasto, la bambina non ha smesso un
momento di parlare: aveva preso confidenza, tanto che si è anche
messa a curiosare per casa mia in un modo abbastanza indiscreto. Quando
ha visto sulla scrivania questo quaderno, ha cacciato uno strillo: "Ma hai
la Fata Rifatta!"
"La che?"
Si riferiva al disegno sulla copertina: una specie di giovane top model
con enormi occhi perplessi, un vitino da vespa, ali da moscerino, le gambe
lunghe da qui a lì e al posto delle tette due coni di volume imbarazzante:
il tutto su uno sfondo di cielo in colorini caramellosi. Deve trattarsi
di una qualche famosa eroina dei cartoni animati, perché la mia piccola
ospite mi è sembrata stupita, anzi scandalizzata che non la conoscessi.
L'ho delusa. Soprattutto quando, cercando di recuperare posizioni, ho azzardato
che questa Fata Rifata, be', certo, era carina.
"Ma che Rifata! Con due ti!" mi ha corretta severamente Sam. "Rifatta! E'
una Fata Rifatta, non la vedi? Sei stupida?" e, decidendo evidentemente
che ero stupida ma recuperabile, si è messa a raccontarmi tutto il
cartone animato, a cominciare da quando la fata aveva ancora le gambe corte
e gli occhi piccolini e poi via con una magia dopo l'altra, cioè
con un intervento di chirurgia plastica dopo l'altro, che, dico io, che
razza di magia è? ma a quanto pare questa fata qui produce interventi
istantanei, con un colpo di bacchettina magica, su se stessa e sugli altri
personaggi. La bambola no, ha detto Sam: la bambola della Fata Rifatta,
la più desiderata dalle bambine di oggi, vendutissima, non è
capace di trasformare niente, lei ce l'ha e lo sa, ma però le piace
un sacco perché ha dentro un microregistratore con vari nastri di
conversazione e ci si può parlare, e bla bla e bla bla... Quando
Sam finalmente se n'è andata, ho dovuto ingoiare due pastiglie per
il mal di testa.
Venerdì
Lavorato tutto il giorno. Aiutato di nuovo Sam a fare i compiti. Stavolta
però non l'ho invitata a restare per cena. Stabilito tra me e me
che, se la madre non si fa viva entro lunedì, il suo abbonamento
alla maestra elettronica lo pagherò io: tutto tempo guadagnato per
me.
Sabato
Credo che per Irene non ci siano più speranze. Oggi mi sono sorpresa
spesso a tendere l'orecchio verso il muro che divide il mio appartamento
da quello delle vicine e, a un certo punto, impensierita dal silenzio, sono
addirittura uscita sul terrazzino (i due appartamenti affacciano sullo stesso
terrazzino, che in teoria servirebbe per stendere il bucato, ma ovviamente
nessuno lo usa mai), ho scavalcato il basso divisorio che lo taglia a metà
e ho sbirciato dentro dai vetri della loro porta-finestra. Forse provavo
un po' di senso di colpa per non aver lasciato chiacchierare e sfogarsi
la povera Sam... Era lì buona buona che giocava con la bambola. Nel
pomeriggio, l'ho sentita chiamare a squarciagola la mamma, ma nessuno le
ha mai risposto. Io lo so come ci si sente quando qualcuno che ami ti abbandona...
Se questa diaria deve servire a qualcosa, be', allora devo scriverlo: non
ho mai perdonato il mio ex marito per avermi comunicato la sua decisione
di lasciarmi via fax. Avrebbe potuto avere almeno il coraggio di dirmelo
per telefono. Invece neanche quello: un messaggio di tre righe per avvertirmi
che sarebbe passata una ditta di trasporti a ritirare la sua roba e stop,
segue lettera dell'avvocato, il vigliacco... Ma cosa sto a lamentarmi? Lamentarsi
è inutile. A questo mondo non ci sono fate che ti possano ascoltare
e correre a rifarti l'esistenza. Se la madre di Sam è stata uccisa
davvero, come credo, chi si occuperà della bambina? Non mi sembra
di aver mai visto né sentito un padre, in giro. Sarà stata
concepita in provetta. Eh sì. Brava, Irene. Voleva una figlia e se
l'è fabbricata da sé, senza fastidi di maschi irresponsabili
che ti tradiscono fino alla noia e poi vanno a eccitarsi con l'avventura
altrove. Sono quasi sicura che il mio ex se ne sia andato in uno di quei
paesi sottosviluppati "dove la terra è rimasta terra, il mare è
rimasto mare e gli uomini sono rimasti uomini" come dice la pubblicità
per turisti: e dove le donne sono rimaste sceme, dico io.
Però non si può mica mettere al mondo qualcuno e poi farsi
ammazzare come se niente fosse. Eh no. Ho deciso. Della bambina mi occuperò
io. E pazienza per il mal di testa.
Domenica mattina
Sono stufa di questo diario inutile. Non ho niente da scrivere. Niente
da vivere.
Domenica sera
E invece sì! Accidenti, accidenti, accidenti! Calma. Cominciamo dall'inizio.
Mentre stavo guardando il noto telequiz "Scegliti la tua vittima!", nell'appartamento
a fianco è scoppiato un fracasso indiavolato. Sam gridava "Va' via!"
e "Non ci credo!" e di nuovo "Va' via!", assieme a rumori di cose che andavano
in frantumi, tipo bicchieri o piatti o soprammobili scagliati contro i muri,
forse addosso a qualcuno. Mi è sembrato di sentire, in effetti, una
seconda voce. Sarà tornata Irene, ho pensato. Perciò mi sono
limitata a alzare un po' il volume del televisore. Una normale lite tra
madre e figlia. Poi però si è sentita sbattere la porta-finestra,
e già questo era meno normale. Poi... dietro il vetro, sul terrazzino,
che guardava dentro la mia porta-finestra, un uomo! Sono saltata in piedi
allarmatissima. Il tizio stava alzando i pugni per rompere... no: per bussare
ai miei vetri. Sembrava disarmato. Boccheggiava. Ha anche detto distintamente:
"Giulia, la prego, mi faccia entrare". Come mai conosceva il mio nome, e
cosa ci faceva lì, sul terrazzino, senza respiratore e senza maschera,
quel bel ragazzo biondo e delicato? Delicato un po' troppo: stava già
cominciando a diventare viola in faccia, soffocava, i suoi grandi occhi
verdi, o azzurri, lacrimavano. In uno slancio di compassione e senza considerare
le eventuali conseguenze, ho aperto la porta-finestra e l'ho lasciato entrare
in casa mia. Mentre lo sconosciuto si riprendeva dal principio di intossicazione,
l'ho studiato per bene. Qualche anno in più di quelli che a prima
vista gli avrei dato. Sui trentacinque, circa. Longilineo, elegante. Mica
male, per trattarsi di un ladro o di un volgare aggressore imbranato. E
la cosa più strana era che mi sembrava di... no, non proprio di conoscerlo
già: ma di averlo conosciuto da sempre. Perciò non sono poi
rimasta tanto meravigliata quando, recuperato il fiato e dopo aver finito
di farsi un pianterello isterico, mi ha raccontato che, nonostante le apparenze,
lui era la mia vicina, Irene, diventata... Che cosa ne pensavo di "Ireneo"?
Per un maschio è un bel nome, insolito: vuol dire "uomo di pace".
Ma Samarcanda invece era rimasta tutta spaventata, non voleva accettare
né credere che lei, cioè, che "lui", che lui l'aveva fatto
per sua figlia, per lei, solo per lei. Perché, mi ha spiegato Ireneo,
le più moderne teorie pedagogiche condannano i rapporti esclusivi
tra una madre e una figlia: fino a che è piccolina, sì, va
bene, la tenerezza e l'amore materno e tutto quanto, ma dopo no, dopo un
padre ci vuole. E ai nostri tempi, con la difficoltà che c'è
di trovare figure paterne disponibili e la facilità invece di cambiare
aspetto e sesso... L'idea le era venuta, ha confessato, a furia di guardare
quella serie di cartoni animati che piace tanto a Sam. Credeva di far bene,
e adesso invece...
"Giulia, ho sbagliato tutto. "
"Non lo so" ho detto io, fissando distrattamente la mano con cui Irene -
Ireneo! - si stava tormentando una lucente ciocca dei capelli cortissimi.
Una mano quadrata, forte, solida. "Scusa, ma tu... Voglio dire, con questo
cambiamento di sesso... sei andata proprio... cioè, fino in fondo?"
Lui si è alzato di scatto, ha camminato avanti e indietro per il
soggiorno con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni, come sovrappensiero,
o in imbarazzo. Poi si è fermato e mi ha sorriso:
"Certo che sì. Mai piaciute le cose lasciate a metà."
"Allora non ci sono problemi... Voglio dire... vedrai che Sam si abituerà.
Capirà di essere stata fortunata, ad avere per madre... cioè,
per padre, una persona tanto... coraggiosa e sensibile."
"Tu credi?" ha detto lui, colpito.
"Oh, sì" ho risposto, e mentre lo guardavo dritto negli occhi - azzurri,
sono azzurri e profondi e più affidabili di un lago di montagna d'altri
tempi - ho sentito nel petto un palpitare di battiti convulsi, dolci e duri
come una mitragliata di confetti.
Racconto pubblicato sulla rivista "Donna", marzo
1998
Tutti i diritti riservati
Incluso nell'e-book "Racconti
dal Web" (2001)