Nel 1907 il "coso con due gambe detto guidogozzano"
era un ventiquattrenne fragile, biondino, con le orecchie un po' a sventola
e le spalle spioventi. Gli era successo di tutto, in quell'anno: l'uscita
della prima raccolta di poesie, i primi scambi di lettere amorose con
la collega Amalia Guglielminetti, il primo serio attacco di tubercolosi.
La scoperta di avere la malattia del secolo precedente mise a rischio
il suo senso dell'umorismo: ma come, proprio lui, l'antiromantico per
eccellenza, colui che canticchiò il primo vero ritmo della crisi del Novecento,
doveva ritrovarsi a morire di un male ottocentesco? Per lo shock le sue
rime si affilarono. Ridusse gli aggettivi. Ora era quasi pronto a scrivere
una poesia bellissima. Gli serviva soltanto una leggera spinta, così leggera
da condurlo a fare ancora un passo avanti nel desiderio e subito uno indietro
nella realtà. Gli serviva un modello di vita da invidiare. E qui intervengo
io.
"Felicita, perché stai nascondendo le riviste?" mi domandò mio padre,
in apparenza intento a esplorare il fornello della pipa. Caro papà. Gli
avrei potuto cambiare sotto il naso tutto l'arredamento del salotto e
non se ne sarebbe reso conto, ma bastava un fruscio di carta ed eccolo
che drizzava le orecchie. "Ti sei dimenticato che aspettiamo una visita?"
"Ah, già: il tuo giovanotto di città, la giovane promessa della letteratura..."
"L'avvocato, papà. Ricordati di chiamarlo 'avvocato', e se gli chiedi
anche qualche consiglio legale sulla proprietà è meglio." "Meglio, dici?
Non so. Avvocato o poeta, resta un'indiscrezione importunare un ospite
con storie di... Ma come ti sei conciata?!" Aveva alzato gli occhi e li
sgranava con una meraviglia così offensiva che mi sentii di colpo molto
incerta: "Eravamo d'accordo..." balbettai. "Non ti ricordi? In questa
casa siamo gente semplice, noi, agiata ma semplice. E io mi sono vestita
di conseguenza... Non ti piace la mia pettinatura?" "Ridicola" bofonchiò
lui, e si mise a camminare avanti e indietro tra il divano corinzio e
la specchiera. "Tutta questa faccenda è ridicola. Accidenti a te e alle
tue amiche di Torino e accidenti anche a me che non ti so dire mai di
no. Non che mi importi della figura da ignorante che mi farete fare, ma
dover vedere la mia unica figlia con addosso i vestiti della serva e tutta
fiera di quelle treccioline da cretina... copiate pari pari da un interno
di Vermeer, oltretutto... Ma ti sei guardata? Sei quasi brutta, priva
di lusinga." "Questa me la segno" dissi io, con una smorfia dispettosa.
Meno male: papà invecchiando stava diventando sempre più pedante e sempre
più distratto, ma non aveva perso la memoria. E in ogni caso sarebbe stato
troppo tardi per tirarsi indietro: suonavano alla porta, Maddalena stava
già andando a aprire, Guido Gozzano era arrivato. Mi rassettai le gonne
prese in prestito e gli andai incontro, ancora un po' nervosa.
In realtà, non avevo niente di cui preoccuparmi: la scena era perfetta.
Fu perfetta per tutto il mese. Il primo giorno gli facemmo fare il giro
dei saloni ("Odore d'ombra! Odore di passato! / Odore d'abbandono desolato")
e mentre lui osservava le nostre sovrapporte decorate con temi mitologici
noi strillavamo che sicuramente ci sarebbe piaciuto buttare via il vecchiume,
rinfrescare la casa, ma con quello che costano i lavori... e a proposito
di fresco, l'Avvocato non avrebbe gradito un giretto in giardino, cioè
nell'orto? Mio padre fu impeccabile nel mostrarsi buzzurro e non gli risparmiò
le lamentele sul fattore infingardo e gli elogi sui cespi d'insalata,
ma superò anche me quando gli raccontò di propria iniziativa un completo
romanzo d'appendice sul come e sul perché la villa aristocratica si sarebbe
trovata nelle mani della nostra famiglia di borghesi: che l'ultima Marchesa
era scappata, che lo scandalo, e che il frutto del peccato, e le spese
azzardate, e le ipoteche, e la gran confusione degli accatastamenti in
quel lontano 1810... Lo annoiò così bene che quando aprii la porta del
fumoir e gli comparvi innanzi col vassoio e il centrino di pizzo e le
tazzine da caffè scompagnate sembrai sicuramente una cosa da amare, anzi
lo fui. Fui un abbaglio magnifico nel buio. ("E rivedo la tua bocca vermiglia
/ così larga nel ridere e nel bere / e il volto quadro, senza sopracciglia,
/ tutto sparso d'efelidi leggiere/ e gli occhi fermi, l'iridi sincere/
azzurre d'un azzurro di stoviglia...") L'ho amato, è vero. In modo gozzaniano.
Per lui ho taciuto pomeriggi interi, ho sorriso, ho ascoltato. Per lo
più mi parlava di farfalle. E il Parnassus Apollo, e la Pieris Brassicae,
e l'Ornitottera Pronomous... "Vede, nelle crisalidi si distinguono due
lati opposti: dorso e ventre. Sul ventre si scorgono rialzi fatti e disposti
come le bende che portano sul capo le mummie: il dorso è dentato e crostoso...",
e io dietro a rammendare le lenzuola di lino, tutta lieta, rassicurante,
scema. Quando però sentii che elogiava con toni malinconici la peluria
dorsale dell'Acherontia Atropos, grossa farfalla volgarmente detta "Testa
di Morto", decisi che il crepuscolo era troppo avanzato.
Mi alzai, con innocenza gli proposi di metterci al coperto e, di scala
in scaletta, trascinai la mia preda in solaio. Il sensibile Guido fu colpito
dal ritratto della Marchesa antica. Un'opera in realtà pregevole, che
sia da attribuire o no, come credo, all'Appiani: portarla su in soffitta
era stato difficile, mio padre non voleva e non voleva, però quella bianchezza
neoclassica sontuosa contro lo sfondo scuro di mobili in disuso era secondo
me un effetto speciale irrinunciabile. Mi servì a bisbigliare con un'ingenuità
molto credibile qualche frase spezzata su paure infantili, coprendomi
la bocca sussurrai che la Marchesa a volte usciva dal suo quadro e passeggiava
per i corridoi, e Guido mi sorrise con riaffermata superiorità e passò
a interessarsi d'altro. Avevo avuto ragione io: senza trucco, la mia rassomiglianza
con lei, con la trisnonna, non attirava affatto l'attenzione. Ma il senso
di trionfo per quel piccolo inganno incorniciato nell'inganno grande mi
trasportò a un eccesso. Con la stampa raffigurante Torquato Tasso incoronato
d'alloro esagerai: nessuna signorina di campagna avrebbe domandato come
mai quel signore aveva in testa un ramo di ciliegie. Ero scema sul serio?
Come avevo potuto non pensare che quelle lì l'alloro lo conoscono eccome?
Mi ero tradita! Avrei dovuto fare, piuttosto, un bel commento sugli odori
da aggiungere all'arrosto. Ma Guido non si accorse dello sbaglio (e infatti
poi citò nella poesia la mia frase infelice senza rendersi conto che stonava).
Era commosso, perso in un suo sogno, meditazione o fantasticheria. L'avevo
in pugno. Rimirammo insieme "la pianura autunnale/ dall'abbaino secentista,
ovale, / a telaietti fitti, ove la trama / del vetro deformava il panorama
/ come un antico smalto innaturale. / Non vero (e bello)..." e a quel
punto ovviamente si parlò di matrimonio, poi ci chiamarono a cena, poi,
come sempre, vennero il Dottore e il Notaio per la partita a carte.
Eravamo in parecchi, nel mio piccolo complotto. Oltre a mio padre, avevo
dovuto persuadere praticamente tutti i maggiorenti del paese a non farsi
sfuggire una parola sulla mia laurea, ed era stata dura, perché a quei
tempi noi donne istruite eravamo bestiole molto rare e quindi un argomento
di conversazione prezioso. Avevo avuto per mia fortuna un valido alleato
nel nostro farmacista, che scrivendo anche lui qualche verso ogni tanto
era propenso a mettersi nei panni di un artista, ma penso proprio che
nemmeno lui comprendesse lo scopo o almeno il senso della mia operazione
culturale. Lasciai dunque che tutti si illudessero di stare compiacendo
un mio capriccio appena un po' più elaborato del solito. Certo che, dopo
un mese di tutto quel teatro con un solo spettatore, qualcuno incominciava
a non resistere: il Sindaco decise di anticipare il suo viaggio annuale
e, sostenendo di dover andare per campi e fratte nelle vicinanze, partì
per Londra con i suoi bauli di camicie da stirare (trecentosessantacinque,
più una per i bisestili: secondo lui non c'erano lavanderie migliori di
quelle inglesi). Ma ormai il grosso era fatto. La seconda fase del mio
intervento su Guido comportò solo alcuni lavoretti di fino. Dimostrai
qualche sintomo di romanticheria, fui stucchevole e fin troppo svenevole
nell'esibire la normale pudicizia delle ragazze da marito, poi gli somministrammo
un magistrale tocchetto di volgarità con le chiacchiere del gentile farmacista
che gli parlò della mia dote esigua e delle voci già corse in paese...
Quando Guido Gozzano se ne andò, eravamo tutti felici e contenti. Lui
perché adesso aveva la sua più bella "rosa non colta" da rimpiangere,
noi perché non ne potevamo proprio più di tutta quella vita sana. Mentre
io mi rimettevo i miei abitini di Poiret e cominciavo a cercare come un'indemoniata
le sigarette turche che avevo nascosto troppo bene, mio padre si rimise
a compilare le schede da spedire a Vienna... Perché sono in pochi a saperlo,
ma è stato papà a fornire a Sigmund Freud il materiale grezzo per i suoi
casi clinici: quell'anno lavorava su una relazione tra la scrittura creativa
e i sogni a occhi aperti, credo. Ma questa è un'altra storia. Quando ebbi
ritrovato le sigarette, non mi restò che aspettare le cartoline della
Guglielminetti. Amalia mi teneva al corrente sui progressi di Guido meglio
di una gazzetta letteraria, e infatti mi mandò quasi subito una prima
versione della mia poesia di Gozzano, che si intitolava L'ipotesi e non
ci piacque molto. Eravamo sicure tutte e due che il ragazzo potesse fare
di più, anche se devo dire che la povera Amalia, con tutti i suoi slanci
para-dannunziani e i suoi grandi cappelli da seduttrice liberty, non gli
facilitava il compito. Forse sarebbe stato mio dovere occuparmi di lei
invece che di lui. Ma perfino una Musa ha dei limiti: come si fa a ispirare
la tua migliore amica, una che hai conosciuto tra i banchi del collegio
delle suore e che ti ha dato sui nervi già allora? Mi guardai bene dal
rivelare a chiunque che la mia interpretazione della signorina Felicita
era stata modellata proprio su Amalia, naturalmente in una prospettiva
del tutto ribaltata. Sofisticata lei? Semplice io. Stracittadina lei?
E io campagnola.
Con il senno di poi, posso affermare che fu la scelta giusta per aiutare
Guido e fu anche una vendetta mica male su quella pretenziosa della Guglieminetti.
Lei adesso nella storia letteraria è una figura di secondo piano, un'autrice
minore e un po' sfocata, mentre io campeggio in grande con l'immortalità
dei personaggi. Ma questo lo so adesso. Nel 1909, quando La signorina
Felicita fu finalmente pronta e stampata, io quasi non ci pensavo più.
Avevo altro da fare. Ero a Parigi con la mia amica Valentine de Saint-Point,
mi ero tagliata i capelli cortissimi e avevo completamente perso la testa
per un tizio molto moderno, molto originale, che con la mia assistenza
aveva appena pubblicato un manifesto pieno di energia... Caro il mio Marinetti!
Un tantino esaltato, ma così bravo con le pubbliche relazioni e le onomatopee!
"Noi vogliamo glorificare la guerra... le belle idee per cui si muore
e il disprezzo della donna", diceva il Manifesto del Futurismo, e Valentine
era convinta di essere lei la donna. Povera illusa. Anche se quell'ingrato
di Filippo Tommaso non ha mai voluto fare nomi, a ispirargli "l'insonnia
febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno"
sono stata assolutamente io.
Racconto pubblicato sul "Corriere della Sera", 22 agosto 2000
Incluso nell'e-book "Racconti dal Web" (2001)
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