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Sulle tracce di Zenobia
Nell'oasi più affollata della Siria |
Oro, spezie, cammelli sulla Via della Seta, una città di marmo abbacinante
come un miraggio rosa al centro del pietroso deserto della Siria e, per
fare più romantica l'avventura, fra le rovine aleggia il bellissimo spettro
di una guerriera antica. Occhi di fuoco, sorriso di perla e lunga, lunga
chioma nera al vento, la regina Zenobia cavalcava alla testa del suo esercito
e, sostenendo di discendere da Cleopatra la Grande, nel 269 d.C. scippò
l'Egitto all'Impero Romano.
Indipendente, intelligente e tosta. Bastava molto meno per trasformare
la sua città, Palmira, nella meta di un turismo di massa. Moltissimi gli
italiani. D'inverno, alta stagione perché fa meno caldo, arrivano coi
pullman a cinquanta per volta: tre tombe, un paio di templi, quattro passi
tra le colonne, cinque minuti per le cartoline e via, tutti nell'uno o
l'altro negozietto di tappeti e souvenir (20 per cento di provvigione
alla guida su ogni acquisto).
"Ci saranno dei modi più furbi per viaggiare senza avere sempre questa
impressione di non esserti mossa dal tuo condominio", mi dico. Detto fatto:
a Palmira ci vengo da sola, come fece nel 1813 la prima donna europea
che arrivò qui.
Lady Hester Stanhope viaggiava, per la verità, trascinandosi dietro un
bel codazzo di servitori e amici, medico di fiducia compreso. Tra le rovine
della Via Colonnata, lunga più di un chilometro, li aspettava una scena
sbalorditiva: sulle mensole a quattro metri da terra che ai tempi di Zenobia
sostenevano lunghe file di statue, "stavano molte belle ragazze, negli
atteggiamenti più graziosi e con ghirlande di fiori nelle mani.
Le loro forme eleganti erano a stento celate da una veste leggera, stretta
in vita da una cintura, e in testa avevano un bianco velo di seta... Mentre
Lady Hester avanzava, quelle statue viventi rimanevano immobili sui loro
piedestalli, ma quando fu passata saltarono a terra e intrecciarono danze
attorno a lei...".
Sotto l'arco monumentale stavano radunati tutti gli abitanti del villaggio
di Tadmor, che accolsero la donna europea acclamandola in coro "regina
degli Arabi". Non male, per una zitella inglese senz'altro stagionata
e magari bruttona.
A me, che non mi sento meno pittoresca di lei, invece non mi aspetta
nessuno. Arriverò a Palmira con una valigetta e con Majid, un autista
che non parla nient'altro che siriano e ha l'abitudine di sbagliare strada
e di scoppiare a ridere deliziato quando, cartina alla mano, gli indico
io dove deve girare per non perdersi un'altra volta. La strada per Palmira
è, fortunatamente, stretta ma dritta come una freccia. A sinistra, steppa
gialla e arida all'infinito, a destra steppa secca di un giallo un po'
più scuro. Pecore bianche, pecore marroni, pecore rosse con la testa nera,
pecore.
Poi più niente. Le carovane cariche di seta della Cina e di spezie dell'India
passarono di qui per secoli, facendo tappa nell'oasi di Palmira, ricca
d'acqua e conseguentemente diventata ricchissima di tutto. Nel 267 d.C.
il re Odenato, vassallo dei Romani, morì lasciando un principino minorenne
e campo libero alle ambizioni imperiali della sua battagliera regina.
Nel 272 Zenobia si beccò la prima sconfitta dalla cavalleria romana dell'imperatore
Aureliano e fu costretta a ripiegare verso casa. Le legioni romane che
la inseguivano persero quattro giorni nell'attraversamento di questa terra
vuota. A noi, in due ore, appare all'improvviso un'alta fenditura in un
bastione e, oltre il verde abbagliante delle palme dell'oasi, eccola lì
Palmira. Ammetterò che la visione è da restarci senza fiato. Nel sole
che appiattisce la distesa di polvere color ocra, si innalza una pazzia
di colonne dorate.
Majid non si lascia distrarre. Oltrepassa l'insegna (vistosissima) del
mio piccolo albergo e va sparato giù al villaggio moderno dietro il museo.
Un'ora dopo, a forza di gesticolazioni, riesco a farmi portare al posto
giusto. E mi scappa un urletto di gioia: l'Hotel Zenobia è proprio come
lo speravo, un assurdo palazzetto coloniale a un solo piano con balaustre
bianche, disinvoltamente piazzato proprio dentro la zona archeologica,
anzi, proprio sopra il cortile del tempio di Baal-Shamin.
Gli perdono all'istante i due cammelli infiocchettati all'ingresso in
annoiata attesa dei turisti, e anche le sedie di plastica in giardino
che circondano autentici capitelli corinzi del III secolo adoperati come
tavolini. Le camere sono solo ventotto: per ottenere una prenotazione
singola bisogna supplicare in arabo (fatto!, attraverso il portiere del
mio precedente albergo a Homs, eh eh), ma ne vale la pena.Ho una stanza
che affaccia sul tempio e la vallata. E nella hall, accanto a un centralino
telefonico di inizio Novecento, tutto legno e spinotti, funzionante, c'è
Suzanne la receptionist, collana beduina, riccioli neri, occhiali civettuoli
e un debole per il romanzesco che lèvati.
Secondo lei, questo albergo negli anni Venti era gestito dalla ex segretaria
di Lawrence d'Arabia, che, dopo aver sposato un conte francese tanto spiantato
da ridursi a fare l'elettricista a Palmira, lo aveva fatto fuori fulminandolo
con "qualcosa di brutto nell'impianto elettrico" per potersi accasare
con il proprietario dell'albergo, poi fatto fuori anche lui per scialacquarne
l'eredità in compagnia di un bel cammelliere irakeno. La vivace contessa
tentò in seguito di raggiungere la Mecca infiltrandosi tra i pellegrini
musulmani ma, scoperta e arrestata per oltraggio alla fede, fu rispedita
in Europa dove fece la spia per i nazisti. Mah. Nei racconti esistono
sempre invidiabili donne dai mille volti, e per una che fa fatica a metterne
insieme almeno uno... Meglio mangiarci sopra.
Il ristorante è stato requisito da un grosso gruppo di turisti belgi.
Degusterò in giardino i miei spiedini di pollo e, riflettendo che i palmireni
antichi erano specialisti nel godersi la vita fino al punto che i riti
funerari consistevano in solenni mangiate (pranzi a invito: ho visto nel
museo le tesserine in bronzo o in terracotta che bisognava avere per poter
ritirare carne e vino), ci sgavazzerò sopra un bicchierone di arak, tiè.
È un distillato di anice e mosto d'uva, sessantacinque gradi, ma mescolato
con l'acqua sembra innocuo. E mi aiuta a capire come mai le matrone palmirene
hanno un'aria talmente soddisfatta anche da morte, in quei sensazionali
ritratti funerari a mezzo busto del museo: erano ben nutrite, oltre che
benestanti. Tutte lì a mettere in mostra braccialetti e anelli con un
indice alzato sulla guancia e le altre dita che reggono il doppiomento,
nella tipica posa in cui si fanno fotografare le sciccose di oggi.
Un po' ciucca, mi metto un berrettino e ci avvoltolo sopra un velo bianco
(pareo pakistano da spiaggia) che qui in Siria mi è stato comodissimo
come parasole, antipolvere e passepartout. Mi girava di entrare in monumenti
islamici anche di venerdì, quando ai turisti non è consentito? Velo sul
naso, e dentro, mai nessuno che mi abbia detto bah.
E mai nemmeno alcuno scrupolo femminista, perché il bello della Siria
moderna è che mantiene (con un pugno di ferro dittatoriale, ottimo contro
l'integralismo) la sua tradizionale convivenza di civiltà diverse, e il
risultato è che per strada vedi ogni foggia di donna: donne con teste
fresche di parrucchiere, donne con il foulard islamico ma vestite normale,
donne con cappottino nero copritutto e foulard colorato, donne con cappottino
colorato e velo con soggolo rigoroso ma bordato di pizzi.
Certo, poi ti tocca vedere anche figure tetre di donne in velo nero ben
stretto attorno al collo e rivoltato sulla testa come un sudario che copre
la faccia e acceca, ma anche lì sotto, forse, rimane qualche spazio: all'università
di Damasco una studentessa, un giovanissimo genio della femminilità-nonostante-tutto-e-tutti,
si ammantava di un velo trasparente, rosso fiamma e fermato con una spillettina
di filigrana stile Mille e Una Notte. Sulle banconote da 100 lire siriane,
Zenobia indossa a viso nudo un elmo che finisce con una bella punta acuminata.
"Che bellini, ma che bellini!", ahimè, ecco un gruppo italiano sulla Via
Colonnata. Tutti sguinzagliati attorno a due falsoni di bambini che, travestiti
da piccoli sceicchi, spacciano cartoline.
Abbordo una signora anzianotta che si attarda: "Di dove siete?" chiedo,
resistendo all'impulso maligno di domandarle invece "Dove siete?", perché
tanto, con la guida che hanno, non lo saprà di certo. La signora mi guarda
stranita, poi risponde: "Italiani". "Anch'io", sbuffo, "volevo sapere
di che città", e la signora, accennando al mio paludamento e con un'aria
sbigottita: "Ma è italiana? Credevo..."
Non volendo imbarcarmi in una lunga storia al sole, biascico: "Mimetizzazione",
e lei fa "Ah!", si guarda attorno furtivamente e abbassa la voce: "Siamo
di Assisi, noi". "E da quanti giorni siete in giro?", "Mah, sette, sei,
mi sembra...", e improvvisamente preoccupata mi domanda: "Non trova più
il suo gruppo?", e io "No no, viaggio da sola". La signora si illumina,
ha capito: "Turista fai-da-te!", strilla felice. Sì, gliel'ho visto negli
occhi, c'è mancato un pelo che alzasse un dito e aggiungesse: "Ahi ahi
ahi!".
Stanotte sognerò Lady Hester che fa la danza del ventre con tante monetine
d'oro tintinnanti alle caviglie. O era Zenobia dopo l'assedio e la cattura,
incatenata con catene d'oro e trasportata a Roma come preda di guerra
di Aureliano? In ogni caso, io l'alba, battuta da una forte brezza fredda
che alza polvere rosa, me la rimiro dalla mia finestra, bella comoda.
E poi via, in marcia per gli antichi cimiteri.
Alle otto del mattino la Valle delle Tombe è intensamente, byronianamente
romantica. O meglio, lo sarebbe, se non fosse che ci si sta strettini:
tomba a torre "dei quattro fratelli", cinquantatré turisti francesi; tomba
a ipogeo "dei tre fratelli", un nuovo condominio di italiani, incontabili.
Cerco asilo nel gran tempio di Bel.
Il recinto, già cotto da un sole ferocissimo, sembra vuoto. Scalo il
sacrario. All'ombra degli spessi muri, dodici turisti ascoltano una guida
che parla in italiano e, perbacco, racconta un bel po' di notizie intelligenti
su storia e architettura di Palmira. I dodici italiani sono amici tra
loro, dividono le spese del pulmino e della guida, vanno dove gli pare,
sembrano informatissimi. Abiteranno tutti nella stessa schiera di villette.
Un po' meno sicura della mia furberia da viaggiatrice-antropologa solitaria
e ormai praticamente al verde (in una settimana di camere singole e autista
personale e ingressi di musei non scontati mi sarò spesa lo stipendio
medio mensile di sei archeologi siriani), un passo dopo l'altro mi ritrovo
a fianco del gruppetto. Quasi quasi gli chiedo se mi posso aggregare.
articolo pubblicato su Amica, n. 4,
22 gennaio 1999
Testo e fotografie di Carmen Covito
Tutti i diritti riservati
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