Quando sull'orizzonte incominciano a sorgere le Pleiadi annunciando l'inizio dell'estate, io porto sempre le ragazze in gita. Glielo devo. A quel punto dell'anno hanno già avuto tre mesi di lezioni e, nella maggior parte, possono recitarmi a memoria almeno un paio di libri di Lucrezio. Sì, lo so, può sembrare una scelta didattica un po' forte. Alcuni genitori gradirebbero che riempissi la testa delle loro rampolle con accorti precetti di economia domestica, un po' di giardinaggio, un'infarinatura di poesia ellenistica per far bella figura in società e nient'altro, perché, tanto, poi la ragazza si sposa. Fortunatamente la mia scuola per signorine è diventata così alla moda che nessuno a Capua ha il coraggio di obiettarmi alcunché: visto che ho per allieve Castricia Ornata e Alfidia Valentina, tutte le mogli di profumieri in cerca di promozione sociale fanno la fila per supplicarmi di iscrivere anche le loro figlie, e va da sé che meno ne accetto più insistono a provarci. Non che io abbia niente contro i bottegai arricchiti, ma i Castrici e gli Alfidi, che mi onorano della loro protezione, tendono ad arricciare il naso e a inarcare le sopracciglia con una frequenza del tutto comprensibile in patroni di stirpe così antica.
La gita d'istruzione di quest'anno è stata organizzata, come al solito, in pompa magna: sono riuscita a limitare il numero delle cameriere a una ogni tre ragazze, ma ci sono voluti comunque sei calessini e un carro perché, naturalmente, la zia di Valentina che si è offerta come accompagnatrice non poteva rinunciare alla sua schiava di fiducia e al cuoco personale. Contando i conducenti e la scorta di guardie municipali a cavallo comandata da un giovane tribuno che rispondeva al pomposissimo nome di Publio Corneliano Scipione, eravamo una carovana tale che perfino nel traffico della via Appia, che è quel che è, non corremmo alcun rischio di passare inosservati. Le mie allieve in effetti se la godevano un po' troppo a ridere e a cantare recitando la parte delle ninfe svagate e seminando sciarpe e coroncine: il tribuno le raccoglieva al volo e spronava il cavallo zigzagando tra un calessino e l'altro come un'ape ubriaca di nettare, perciò non mi aspettavo di arrivare prima del tramonto alla villa rustica dei Castrici, ma ci riuscimmo. La mattina dopo feci suonare l'adunata all'alba e ci inoltrammo come una legione nella valle Caudina.
Quando si tratta di venire al dunque della visita d'istruzione, le mie ragazze sono sempre disciplinate: si infilarono i lembi della tunica nella cintura e si arrampicarono senza esitare su un pendio discretamente ripido, incuranti dei loro graziosi stivaletti e dei soldati col fiatone che ci venivano dietro tra rovi e sterpi badando a tener bassi gli occhi (mi rendo conto, tante gambe nude alla Diana Cacciatrice erano imbarazzanti per loro, e meno male che la zia si era fermamente attestata a fondovalle con la scusa di tener d'occhio carri e bagagli: da quella parte non dovevo temere attacchi). Sul crinale schierai tutti in bell'ordine panoramico e feci, nel silenzio più assoluto, la mia lezione di storia e geografia sulla seconda guerra sannitica. Di là Gaio Ponzio, astuto meddix tuticus dei sanniti, blocca l'uscita della stretta gola, di qua ventimila romani seguono come un gregge di capre due consoli imbecilli, e la trappola scatta: i sanniti li chiudono alle spalle, li accerchiano, massacrano a volontà e, in conclusione, accettano la resa dei superstiti ma li fanno passare uno per uno sotto il giogo infamante.
"Ora" conclusi, "qual è la morale? Vedo sei mani alzate. Valentina, a te."
"Mai fidarsi di chi non conosce il terreno?"
"Ci sei andata vicino, ma si può dirlo meglio. Ornata, vuoi provarci tu?"
La mia seconda migliore allieva saltellava per l'ansia di dare la risposta.
"I romani pensavano che la valle fosse sicura, ma se l'avessero osservata prima di entrarci si sarebbero accorti che non lo era! Quindi, l'osservazione della natura è più importante delle idee che ci facciamo su di lei."
"Esatto. In altre parole: Aristotele vince, Platone perde. E adesso andate a mettere in pratica quello che avete imparato, su. Osservazione delle piante utili e inutili. Marmi e rocce. Animali. E, visto che ci siete, guardate di trovare qualche punta di freccia per la nostra collezione. Sono passati trecentocinquant'anni, però scommetto che in giro ce ne sono ancora."
Le studentesse frullarono via come colombe volonterose, spargendosi all'istante per le fratte e i dirupi.
"È proprio vero che tutti gli esseri umani, per natura, tendono al conoscere" commentai amabilmente. "Aristotele dice 'tutti gli uomini', ma dev'essere un errore dei copisti."
La faccia dei soldati di scorta mi fece passare la voglia di sorridere. Erano ingrugnatissimi.
"Che c'è?" chiesi al tribuno, sinceramente curiosa. Non l'avessi mai fatto. Mi piantò un chiodo che non finiva più sulla sconvenienza di mostrare alle signorine il luogo di una terribile umiliazione dell'esercito romano, quando c'erano invece, non distanti, i luoghi della gloria: Pirro sconfitto, Annibale sconfitto eccetera eccetera, e oltretutto la valle gli sembrava di malaugurio, così angusta, con tutte quelle femmine a violare l'orrido senso sacro che ispirava alla truppa, e, insomma, lo rendeva un po', diciamo, nervoso.
"Forse hai ragione" lo interruppi. "Non credi che i tuoi valorosi si siano riposati abbastanza da poter riprendere il servizio di scorta? Qui di sanniti ostili non ce ne sono più, tranquillo, ma qualche lupo in giro potrebbe esserci. E, a proposito, è un bel pezzo che non vedo più Blossia Trifena."
Mentre mi avviavo a cercarla, sentii uno scoppio di ordini urlati alle mie spalle e un frastuono di spade e altre ferraglie indicanti che gli uomini richiamati al dovere si affrettavano a alzarsi. Avrebbero dovuto sorvegliare le ragazze senza che glielo ricordassi io, ma almeno adesso sembravano intenzionati a farlo. Lo sprovveduto che li comandava mi sorpassò di corsa, forse per non lasciarmi vedere che aveva avuto il buon gusto di farsi rosso come il suo mantello, o forse perché Blossia Trifena era il fiore attorno al quale aveva ronzato di più per tutto il viaggio. In ogni modo, poco ci mancò che sullo slancio il nostro Scipioncello precipitasse a corpo morto dentro il burrone che si spalancava subito dopo il ciglio della collina.
La ragazza era là. Stava col naso contro una parete di roccia spoglia, tutta strati sottili di un colore grigio chiaro giallastro, con striature verdognole, mezzo franata. Mi allarmai. Però Trifena si girò e cominciò a sbracciarsi allegramente.
"Venite! Ce ne sono tantissimi!"
Aveva solo trovato qualcosa. Punte di giavellotti? Il tribuno si dette finalmente un contegno, mi prese sottobraccio e mi aiutò a scendere un ghiaione scivoloso. Gli uomini in certi casi sono utili. Arrivammo dall'altra parte senza ammazzarci e, no, non erano punte di giavellotti. Sulla sfoglia di roccia che Trifena mi tendeva c'era, perfettamente disegnato in rilievo, un pesce.
"Bene" esordii, sedendomi con cautela su un mucchietto di sassi franati. "Ne ho già visti. La teoria di Aristotele è che si tratti di uno scherzo della natura: ci sarebbe una forza formativa che si diverte a riprodurre forme di organismi viventi nelle rocce, ma", giocherellai con i sassi, ne presi in mano uno, lo guardai: una conchiglia, lo ributtai nel mucchio, ne presi un altro: un dente, forse di squalo, "Pitagora sosteneva invece che si tratta di veri resti di animali marini. Questo quale problema ci pone?"
Trifena si sedette a sua volta e cominciò sovrappensiero a accumulare pietre una sull'altra. Dopo aver fatto e disfatto un paio di precari castelli, si grattò una crosticina sul ginocchio. Poi azzardò:
"Se si tratta di veri animali marini, qui una volta doveva esserci il mare..."
"Perché no? E io vidi ciò che un tempo era stato solida terra trasformato in mare; vidi dalle acque emergere nuove terre e lontano dalle rive, abbandonate, conchiglie marine. Ovidio, Metamorfosi."
"Sì" disse la ragazza sollevando la testa di scatto, "ma quanto tempo ci vuole perché il mare diventi una montagna? Non può succedere da un momento all'altro! Devono essere animali vecchissimi."
"Sciocchezze" affermò Scipione. "Sciocchezze greche. Non avete niente di meglio da fare?"
Lo fissammo tutte e due, probabilmente con l'identico disprezzo: altrimenti non mi spiegherei come mai diventò di nuovo rosso e, allontanatosi di qualche passo, si mise ostentatamente ad affilare la spada sulle scabrosità della parete di roccia. Noi tornammo a concentrarci sulle cose importanti.
"Non vedi come anche le pietre sono vinte dal tempo, crollano alte torri e si sfaldano rocce? La tua deduzione si integrerebbe bene nell'ipotesi di Pitagora, che però va corretto con Epicuro. Noi non sappiamo quanto è vecchio il mondo. Sappiamo solo che non può essere eterno, perché vediamo che intorno a noi tutto quello che nasce muore, e se non morisse avremmo ancora tra noi i giganti e i centauri, e il regno di Saturno, l'età dell'oro... Un pesce muore, cade nel fango, il fango a poco a poco diventa roccia, il vento sotterraneo gonfia la roccia, la solleva fino a farla diventare una montagna... Poi, come scrive ancora Lucrezio: A poco a poco il tempo fa emergere ogni cosa. "
"Sì" disse Trifena, "ma quanto tempo? Secondo me..."
Le adoro quando fanno così. Da quel timido "secondo me" può venir fuori di tutto. Perlopiù sono arzigogoli audacemente campati in aria. Trifena però mi stupì. Con gli occhi che brillavano, riprese le sue pietre piatte e le sistemò di nuovo una sull'altra, questa volta con attenzione.
"Mettiamo che io trovassi una punta di freccia tra queste pietre sotto questa roccia coi pesci. Vorrebbe dire che qui il mare c'è stato dopo la guerra. E visto che la data delle guerre sannitiche la sappiamo, sapremmo anche quanti anni ci hanno impiegato queste montagne a formarsi."
"Ma no" obiettai, cominciando a sorridere e preparandomi a dimostrarle che il suo ragionamento non stava in piedi, per l'evidente ragione che al momento delle guerre sannitiche le montagne c'erano eccome, con tanto di gole pronte ad essere usate per chiudere la trappola, però, non so perché, esitavo. Avevo come la sensazione di essere lì lì per cogliere qualcosa che non riuscivo a vedere, quasi che sotto le parole assurde di Trifena strisciasse un che di sottilmente vero ma elusivo, imprendibile, irritante come un tarlo nascosto dentro un mobile. Il tribuno Scipione mi levò dall'imbarazzo esclamando con voce soffocata una parola che non dovrebbe mai essere pronunciata in presenza di signorine di buona famiglia. Mi girai a guardarlo con la mia espressione più severa.
Gli era cascato in braccio un frammento di roccia piuttosto grosso e largo, e lui lo contemplava con gli occhi fuori dalle orbite, grigio in faccia, impietrito come se avesse visto la testa di Medusa. Che pasticcione. Si era fatto male? Grata per la manovra diversiva che mi stava involontariamente offrendo, mi alzai e mi avvicinai con fare premuroso.
"Un coccodrillo!" esclamò Trifena, deliziata. Come previsto, si era lasciata subito distrarre dalla curiosità. Però la cosa nella roccia che sbigottiva il nostro giovanotto non era un coccodrillo. Di quelli ne abbiamo in quantità a Capua, raffigurati tra ippopotami e ibis e pigmei nelle pitture egittizzanti in voga: soltanto il muso lungo irto di denti li accomunava a questa mostruosità che, coda a parte, per il resto sembrava un pollo senza penne, col collo storto e due manine orrende al posto delle ali. Di un pollo aveva anche le dimensioni.
"Non è un coccodrillo, è un drago..." farfugliò il tribuno.
Sbuffai sonoramente e lo rimproverai. Dove mai lo aveva visto un drago, sulle insegne di una legione? I draghi sono solo allegorie poetiche: semplicissimi serpenti che l'immaginazione ha reso più decorativi con l'aggiunta di alcune teste supplementari. Il coso spaventoso ne aveva una sola, di teste, e anche piccola.
"Non è un drago e non è un coccodrillo. Non è niente di conosciuto."
"Comunque sia, è bellissimo" dichiarò Trifena. "Posso averlo? Per piacere, posso averlo?"
Era così entusiasta di quel ritrovamento che non ebbi il cuore di dirle la verità. L'animale impossibile dimostrava senza ombra di dubbio che Pitagora si era sbagliato (non per la prima volta: vedi tutte quelle idiozie sulle fave, che sono perfettamente commestibili checché ne dicesse lui). Aveva ancora ragione Aristotele: gli animali nelle rocce sono soltanto forme mai vissute. Per corollario, le belle teorie sono predestinate ad essere smentite dall'esperienza.
Ignara delle mie riflessioni scientifiche, Trifena si cullava tra le braccia la lastra di calcare che il tribuno le aveva consegnato fin troppo volentieri. Ci avviammo pian piano per raggiungere gli altri.
"Vuoi davvero portarlo fino a casa? È pesante."
"Mi serve" disse Trifena. "Devo scrivere una relazione. Se sono la prima a descrivere un animale che nessuno conosce posso diventare famosa, no? Però mi sa che dovrò dargli un nome."
"Oh," dissi "certo. Dagli il tuo."
Lei ci pensò un momento, poi scosse la testa. "No, non sarebbe modesto. Lo chiamerò Meddix Samniticus, in onore di Gaio Ponzio. Suona bene."
"E perché non Scipionyx? Se vogliamo essere giusti, è stato il tribuno a trovarlo."
Blossia Trifena fece una smorfia dispettosa, disse "Se non era per i sanniti, noi qui non ci venivamo neanche", e allungò il passo.
Sono bambine, in fondo. A dodici anni giocano con la filosofia come giocano con le bambole. E a tredici o a quattordici le dovranno deporre sull'altare di una dea, come prevede il rito per le spose. Già sparita è la luna, tramontano le Pleiadi. Notte fonda. È questa la natura delle cose. Che cosa posso fare, io? Solo tirare in lungo il più possibile una stagione breve. Solo aggiungere luce a uno splendore che è destinato a estinguersi.
"Ti aiuterò per la tua relazione" assicurai. "Scrivere relazioni è un ottimo esercizio."
Racconto pubblicato nel volume "Sguardi sulla scienza - 10 racconti più 10", a cura dell'Ufficio Stampa CNR, edito dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 2004
Incluso nella nuova edizione accresciuta di Scheletri senza armadio e altri racconti (eBook Kindle, 2012)
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