Elzevirus
Elzevirus 6-
Non ultime ma definitive volontà
A che cosa può servire una pagina web? Anche a rendere pubbliche le
proprie disposizioni testamentarie, in modo da poter contare su molti
involontari testimoni nell'occasione che, prima o poi, si darà.
Non ho particolari tendenze all'umor nero, ma spesso mi è toccato vedere
scrittori o intellettuali noti per il loro laicismo finire tra le braccia
di una chiesa quando meno potevano difendersi: al loro funerale. Quindi,
metto le mani avanti e dichiaro davanti a te, o lettore, o lettrice, ciò
che segue:
Sono agnostica dall'età di diciannove anni e intendo rimanerlo. Tutte
le religioni mi interessano come manifestazioni storiche e antropologiche
della nostra comune umanità e in quanto tali le rispetto e le studio,
ma nessuna ha potuto né potrà mai convincermi. Le mie illusioni di immortalità
le ripongo nei libri che scrivo e, forse con maggiore sicurezza, nel ricordo
di chi mi ha conosciuta.
Di conseguenza, e dato che il costume richiede di allestire una qualche
cerimonia di commiato a chi se ne va dalla vita, voglio e pretendo che
il mio funerale sia totalmente laico. Nessuna chiesa, per favore. Nessun
prete, cattolico o buddhista o animista che sia. Se ci saranno degli amici
e dei parenti a darsi conforto tra di loro con una commemorazione, bene,
vuol dire che qualche piccolo vuoto avrò lasciato. Altrimenti, pazienza:
un coccodrillo sui giornali e via.
Non mi dispiacerebbe, lo confesso, avere un po' di fiori e un simpatico
corteo aperto da una banda di ottoni in stile funerale di New Orleans
che mi accompagni fino al forno crematorio, ma ovviamente al momento non
sarei in grado di apprezzarlo e dunque non è fondamentale.
La cremazione invece sì. La preferisco per ragioni estetiche e igieniche
(e vabbè, anche sentimentali e letterarie: l'immagine di Achille che dà
fuoco al rogo di Patroclo, che frisson quando leggevo l'Iliade
da ragazzina... Comunque, sono iscritta dal 1996 alla Società per la Cremazione
di Milano, con il numero di matricola 48058: loro sanno quali procedure
burocratiche sono necessarie). Se nel frattempo si rendesse utile a qualcuno
qualche organo dei miei, prego le autorità sanitarie di servirsi pure.
Delle ceneri fatene quel che vi pare.
Manca qualcosa? Ah, un epitaffio. Suggerisco questo: "Carmen Covito è
stata qui. Partecipò alla vita, lesse libri, ne scrisse". Punto e basta.
In Milano, 30 giugno 2003
Elzevirus 5- All'indice!
Anno 2001. Leggo sul "Corsera" una notiziola
ripresa dalla rivista "Nature": un'èquipe della Berkeley University avrebbe
stabilito che il dito indice delle lesbiche e dei gay è molto più corto
di quello degli etero "a causa di una maggiore esposizione agli ormoni
maschili subita nell'utero materno". Mi guardo immediatamente le mani,
e mentre me le guardo penso "Scema! Che te le guardi a fare? Non hai sottomano
una lesbica dichiarata con cui fare il confronto, e se è per questo, neanche
una etero a denominazione d'origine controllata...". Personalmente, sono
del parere che qualunque tentativo di cercare una predisposizione genetica
alla sessualità umana sia tanto sensato quanto una disquisizione bizantina
sul numero di angeli che possono ballare sulla punta di uno spillo. Altrettanto
poco interessanti mi sembrano gli accapigliamenti su un'origine psicologica
o sociologica o parallelepipeda degli orientamenti sessuali. La nostra
sessualità è o non è, e questo è quanto ne dobbiamo sapere: se una sessualità
ce l'avete, che v'importa da dove arriva? Esultatene e basta.
Però "Nature" non è una rivistina new age ma un serissimo organo scientifico
(che secondo me farebbe meglio a chiamarsi "Culture", ma questo è un altro
discorso). Dunque la notiziola non va sottovalutata. Guardo meglio e scopro
che non ho bisogno di confrontarmi con nessuno: la ricerca mi informa
che "negli uomini etero l'indice è solo leggermente più corto dell'anulare
mentre nei gay è molto più corto. La stessa discrepanza è risultata vera
nelle donne, il cui indice ed anulare si equivalgono mentre nelle lesbiche
il primo è molto più corto del secondo". Uhm... Qui non sono le dita
a non quadrare: se non è un errore di stampa, come mai "uomini etero"
è contrapposto a "gay" mentre "lesbiche" viene contrapposto a "donne"?
Cosa sono le lesbiche, marziani? Spero proprio che sia un errore di stampa,
e non di testa.
Ma non sottilizziamo, e lasciamo perdere anche tutte le mie riserve sui
tentativi benintenzionati di "giustificare" l'omosessualità
trovandole a tutti i costi delle radici fisiologiche che purtroppo ricordano
Lombroso e i suoi antenati della fisiognomica rinascimentale: devo ancora
guardarmi le dita. Dunque, "anulari molto più lunghi degli indici indicano
tendenze omosessuali"... Ma pensa un po', adesso sono gli anulari
a indicare... e il mio... accidenti, ho l'indice più corto di almeno mezza
unghia, poffarbacco, sono lesbica! In tutte e due le mani! Questa devo
assolutamente raccontarla al mio ex marito, e anche ai miei ex fidanzati:
se hanno una buona memoria non mi crederanno, gli dovrò dimostrare che,
quando loro sono diventati ex, a me mi si è allungato l'anulare. O mi
si saranno accorciati gli indici? In ogni caso, ragazze, preparatevi,
adesso tocca a voi: sto per mettermi sulla piazza...
Ma intanto vado avanti a leggere e scopro che l'indagine si basa su un
campione statistico di 720 persone scelte a caso per le strade di San
Francisco. Uhm e ri-uhm... ma San Francisco non era il posto con la più
alta concentrazione di gay della California? Quanti saranno stati gli
indici etero, in un simile campione? E perché poi soltanto 720 e non almeno
mille, o magari 666 appena, che per le demonizzazioni è più intonato?
Se bastasse guardare un indice per riconoscere l'orientamento sessuale
di una persona, al diavolo la privacy. Dirlo subito al Garante Stefano
Rodotà. In alternativa, comprare azioni di tutte le fabbriche di guanti
quotate in Borsa (forse questa è la volta buona che mi arricchisco).
Elzevirus
4-
La revisione di Persepoli
Agosto 1999. Torno da un viaggio di quindici
giorni in Iran: volevo sentire che cosa si prova a essere costrette per
legge a scomparire sotto un chador. Si prova esattamente quello che immaginavo:
i particolari e le sfumature li ho raccontati in un reportage per il settimanale
"Amica", in cambio di metà delle spese di viaggio nonché di un compenso
sufficiente a rimborsarmi di quasi tutti i rial che per la frustrazione
ho dilapidato in tovagliette di Isfahan, aspersori per acqua di rose,
scatoline laccate e miniature illustranti i poeti Omar Khayyam e Hafez
completamente sbronzi. Quello che non avevo immaginato, e che non ho potuto
raccontare su "Amica" per mancanza di spazio e per non andare fuori tema,
mi è successo a Shiraz: era, in effetti, abbastanza inimmaginabile finire
a fare editing anche in Iran.
La vicenda incomincia quando il mio gruppo di turisti accaldati è preso
in carico da uno strano tipo di guida locale: nervoso, segaligno, non
solo veste all'americana con jeans e giubbottino e berrettino con la virgola
Nike, ma con noi si comporta da sergente dei marines ("tutti qui! svelti!
andiamo avanti! raggrupparsi! cinque minuti per le fotografie" eccetera)
sferzandoci tutto annoiato con spiegazioni insolitamente pedanti. Il mio
gruppo comincia a odiarlo subito. Però l'ometto ci porta a vedere il bazar
dei nomadi, cioè di una minoranza inafferrabile dalle restrizioni degli
ayatollah, e ci fa entrare in una casa da tè piena di vecchietti simpatici
dove, semioccultato dietro i narghile, c'è un ritrattino dello Shah deposto,
e poi, quando arriviamo a una madrasa nel cui cortile un crocchio di mullah
e sacrestani sta facendo salotto cicalando in persiano sopra un vecchio
lettino di ferro piazzato bene all'ombra di una palma, ecco che il nostro
ometto li sbircia di traverso e mi bisbiglia "visto? sempre lì a fare
niente, i parassiti". Wow! ma questo è un dissidente! che, perlomeno con
noi stranieri, a non farsi notare non ci pensa proprio: portandoci a vedere
una cisterna sotterranea dove profondo è il pozzo e stretto è il ponticello
che bisogna attraversare, eccolo che ci porge una mano a tutti per tirarci
di là, donne incluse - anzi, donne prima di tutti, per chiarire che è
moderno, lui, e che la proibizione di stringere la mano alle donne gli
fa schifo e se ne sbatte, lui, perlomeno quando è sicuro che nessuno dei
suoi connazionali può vederlo.
Il tempo di arrivare a Persepoli e, bisbiglio dopo bisbiglio, mezza parola
dopo mezza parola, la storia viene fuori: la nostra guida era un professore
universitario, ai tempi dello Shah era stato in America, di conseguenza
al cambio di regime è stato prontamente epurato e spedito in provincia
a fare lezioncine inoffensive ai gruppi di turisti. Negli anni, per combattere
l'umiliazione e lo stipendio basso, ha preparato e stampato a sue spese
una piantina degli scavi che vende, a chi la vuole, per un dollaro. Ce
l'ha in inglese e in spagnolo, ma, veramente, ce l'avrebbe anche in italiano,
solo che non è ancora pronta, sarebbe necessaria una buona correzione,
specialmente gli accenti sono un problema grosso, per non parlare della
traduzione che è stata già rivista da una dozzina di italiani di passaggio
e chissà che pasticcio è diventata e, certo, avere pronta questa ulteriore
versione di quel suo lavoretto gli farebbe un gran comodo, perché con
la vita che costa quel che costa e con tutti i turisti italiani che vengono
ad ammirare le passate grandezze imperiali della Persia... Questo povero
intellettuale declassato e depresso e petulante è talmente patetico che
non resisto: mentre gli altri del gruppo vanno a spasso, eccomi chiusa
in camera a rivedergli il testo fino alle due di notte.
Il giorno dopo, quando gli ridò le bozze corrette, il prof impallidisce.
Mi rendo conto che non ha mai visto niente del genere e incomincio a spiegargli
il sistema internazionale di segni usato da tutti i correttori di bozze
di lingue occidentali, ma non c'è verso, lo vedo sudare sotto il suo berrettino
della Nike, che fare? Oh, trovato! La stampa è computerizzata, dunque
le correzioni posso fargliele io direttamente a video. Detto fatto: alla
fine dell'ultimo giorno di visite, dopo che il vecchio prof si è esibito
nella spiega più veloce che mai un gruppo di turisti abbia avuto a Shiraz,
saltiamo tutti e due in un taxi scassato e ci fiondiamo alla tipografia.
Ufficetto al secondo piano di una galleria commerciale. Tre pc che fanno
tenerezza, il programma di videoscrittura e desktop publishing gira sotto
DOS e, cazzo, l'interfaccia è in caratteri persiani. Ma alla tastiera
c'è una maghetta in chador che si chiama Saifie e che, pur non sapendo
una parola di lingua alcuna che non sia la sua, afferra al volo qualunque
richiesta di rientrare un capoverso o assorbire un righino orfano: lavorare
con lei è un piacere, ben rubato alla vacanza. Nel frattempo che noi ce
la spassiamo a sgobbare, il marito se ne sta a fare il proprietario della
ditta, in panciolle dietro una scrivania a chiacchierare con il mio prof
che gli starà probabilmente esponendo (per un'ora e mezzo) tutta la sua
delizia di poter avere finalmente il pieghevole in italiano garantito
e con tutti gli accenti a posto (caratteri speciali da tastierino numerico).
Vedo brillargli sotto la visiera tanti biglietti da un dollaro in più
e, in effetti, mi è grato: insiste che sulla prima pagina devo assolutamente
aggiungere il mio nome. Perché no? Ce lo metto.
Molti visitatori, dall'Ottocento in poi, hanno lasciato firme incise sui
portali, disegnate sui tori alati, graffite sulla base delle colonne e
sui bassorilievi delle grandi rovine di Persepoli. Io il mio nome lo lascio
su una cartina: è meglio.
Elzevirus
3-
L'invenzione della Moda
1999. L'immagine del corpo, come ogni altro
elemento costitutivo della cultura umana, cambia nel tempo: il problema
è che oggi il tempo scorre più veloce che in passato, concentrando nella
singola esistenza di una donna variazioni che ancora qualche secolo fa
riguardavano donne di generazioni successive.
La donna Stile Impero, per esempio, con la sua vita altissima, non doveva
strizzarsi all'improvviso nel vitino di vespa diventato di moda alla metà
dell'Ottocento: lo strizzamento toccava a sua figlia. Ma in tempi più
lontani la modifica delle forme saltava addirittura le generazioni: la
Beatrice di Dante e la Laura di Petrarca, alla distanza di una sessantina
d'anni l'una dall'altra, si sarebbero potute scambiare i vestiti rimanendo
alla moda tutte e due (e avevano sicuramente anche la stessa forma di
seno, alto, piccolo e sodo come fu chic averlo per tutto il Medioevo).
Le ragazze moderne, continuamente spinte a rottamare l'ultimo corpo appena
conquistato, avrebbero il diritto sacrosanto di farsi un bel pianto isterico
e domandarsi: "Insomma, ma quando è cominciata questa storia?".
È cominciata a metà del Cinquecento. Non che la moda, prima, non
esistesse: esisteva, però si limitava alla predilezione per un colore,
per un accessorio, per un'acconciatura. Ancora nel Quattrocento, il capo
femminile di base rimaneva la cosiddetta "gonnella", che non era affatto
una gonna ma la stessa tunica lunga e sciolta che avevano portato le signore
grossomodo dai tempi bizantini.
La novità non era un gran valore, l'eleganza non stava nel taglio sartoriale
ma nel pregio degli ornamenti e soprattutto delle stoffe: tutti i tessuti,
fabbricati a mano, erano costosissimi. Alcuni erano vere opere d'arte,
utili per manifestare la ricchezza del possessore e per assicurarla ai
produttori. Le città italiane specializzate nella tessitura, come Firenze,
Genova, Venezia e Milano, inventando nuove stoffe di pregio riuscirono
nel Cinquecento a sfuggire alla crisi economica provocata dallo spostamento
verso Occidente delle rotte commerciali, e non solo ci si arricchirono,
ma finirono per accreditare anche l'idea moderna della moda come ricerca
della novità. E nacquero gli stilisti. E gli americani dell'epoca, che
erano gli spagnoli, lanciarono la voga dei corsetti attillati (tanto attillati
che le donne si imbustavano in graziose macchine da tortura, fatte a volte
di ferro e a volte solo di stecche di vimini e di ossi di balena). Il
corpo diventò un paziente supporto per la geometria di costruzioni tessili
sensazionali.
Il perché e il come sono ben visibili nella preziosa e curatissima mostra
del Museo Poldi Pezzoli (Milano, via Manzoni 12 - fino al 15 settembre
1999) dedicata allo status symbol di quell'epoca: il velluto operato.
Attraversare le piccole sale dell'esposizione, tra i drappi quietamente
luccicanti nelle vetrine e i molti quadri antichi che ne illustrano l'uso,
ci fa sentire un po' come una gazza ladra col cuore in gola dentro un
cofanetto intero di gioielli: non si sa da che parte girare l'occhio e
mettersi a beccare, qui è tutto raro in modo commovente, perché le stoffe
in genere sopravvivono poco ai corpi che hanno rivestito un tempo. Le
più preziose venivano lasciate in eredità, scucite e ricucite, riutilizzate
fino a diventare stracci, si salvavano solo quelle che da una sopravveste
di duchessa avevano per caso l'occasione di diventare pianete di vescovi,
e anche di queste la maggior parte sono state fatte a pezzettini dai collezionisti
del secolo scorso: qui, restaurate e ben illuminate, ci sono grandi stoffe
di un buon mezzo millennio fa e perfino un giubbetto da ragazzo che appare
come nuovo, mai portato (perché? non sarà mica morto, il ragazzino, prima
di poterlo indossare?), e un intero abitino da piccola principessa sicuramente
morta (è stato ritrovato in una tomba). Per sfuggire alla seduzione languida
di queste stoffe che, con i loro rossi vampireschi e gli ori rutilanti,
un po' inquietano e un po' fanno sognare, bisogna seriamente cercare di
capirle, con l'aiuto magari dell'ottimo catalogo Velluti e Moda tra
XV e XVII secolo pubblicato dal Poldi Pezzoli per le edizioni Skira.
Elzevirus 2-
Riflessioni in margine a una mostra monstre
Vado a vedere la mostra di "mutazioni, trasfigurazioni
e sangue" Rosso Vivo, curata da Francesca Alfano Miglietti. Folla
di giovani, giovanissimi e qualche trendy di età incerta. Bell'ambiente,
allestimenti buoni, artisti all'avanguardia. Sembra quasi di non essere
in Italia. Il primo impulso è di mettermi a fare il gioco da visitatrice
solitaria che faccio di solito alle mostre e nei musei: "Che cosa mi porterei
a casa subito e che cosa mai?".
Mi porterei subito: le meravigliose stampe fotografiche su tela del citazionista
Yasumasa Morimura, le commoventi e/o ironiche sculture multimediali dell'acido
Reuven Cohen e, ma potrei ripensarci, quell'inquietante corpo umano fatto
di migliaia di scarabei disseccati che mi ha ipnotizzata fino al punto
che non ho manco guardato il nome dell'autore. Non mi porterei mai: i
cuori di maiale sotto formalina di Marcel.li Antunez Roca, perché l'installazione
è concettualmente bellissima ma c'è un limite a quello che una mente umana
può sopportare (un limite di tempo: guardarli per cinque minuti si può,
da sei in su diventa troppo), e ovviamente non mi porterei neanche quegli
interessantissimi mostriciattoli di Thomas Grunfeld, ottenuti innestando
una mezza cicogna vera su mezzo cane vero o un mezzo uccello del paradiso
vero su mezzo canguro vero, non perché non mi piacciano, ma perché anche
le imbalsamazioni meglio riuscite, si sa, possono cominciare a puzzicchiare...
E a questo punto, gironzolando come una mutante muta tra la folla di mutanti
chiacchierini che, un po' pallidi, osservano se stessi nelle opere esposte
al Padiglione dell'Arte Contemporanea di Milano per la mostra Rosso
Vivo, mi rendo conto che il mio giochetto non funziona. Non più. E
non perché, come qualcuno pensa ancora, certe cose siano esteticamente
piacevoli ed altre no: l'arte contemporanea ha scavalcato da parecchio
tempo le separazioni tra "bello" e "brutto", ai pugni nello stomaco siamo
ormai abituati, e ci piacciono un sacco, specialmente se sono dati bene.
Il problema è che in questa mostra, come in buona parte del panorama artistico
contemporaneo, le opere sono poche. Sono molte di più le azioni. E se
le opere non ci sono, che cosa puoi portarti a casa, un souvenir? reliquie?
la documentazione di un'azione?
Sì, sarebbe possibile: queste tracce o feticci ci sono, infatti. Vedo
in esposizione la grande gonna metallica a rotelle che Jana Sterbak nel
1989 ha usato per la performance Télécommande, e lì vicino un video
mostra come la donna sospesa dentro quella crinolina metallica rivelava
la propria dipendenza dall'altro, da colui che telecomandava il movimento...
Ci sono, in mostra, varie fotografie che documentano le performance di
Stelarc (genio ed eroe del corpo postorganico), con il suo "terzo braccio"
artificiale o con i vari esperimenti di sospensione elettronico-masochista
che ne fanno uno degli artisti in assoluto più rappresentativi del nostro
tempo; e Orlan ha lasciato qui in giro qualche garza chirurgica, qualche
brandello di carne asportata, e ancora videotape, e ancora fotografie...
Ma dunque, se l'opera d'arte tradizionalmente intesa, cioè un oggetto
sensibile, tangibile in qualcuna almeno delle tre dimensioni classiche,
viene sempre più spesso sostituita dalla memoria storica di un'azione
artistica, non sarà che la vera opera d'arte del nostro tempo è proprio
questa memoria? cioè la tecnica stessa che la rende possibile?
Ho capito. Ho capito perché, di tutto quello che ho visto in questa mostra,
mi hanno soprattutto colpito le fotografie di Yasumasa Morimura. A differenza
di Reuven Cohen che fa ancora sculture sia pure in materiali compositi
e moderni (teste e busti realisti o iperrealisti su parallelepipedi di
perspex luminosi e illustrati), Morimura riduce la materia a una tela
stampata che serve da supporto per la fotografia, e già questo sarebbe
assai simpatico, perché la tela cita la pittura che non c'è più. Ma i
soggetti di queste fotografie sono, a loro volta, delle citazioni: si
va dai preraffaelliti addirittura al Bronzino, ricreati "dal vivo" con
sontuosi costumi, deformati nell'ambientazione o spiazzati da particolari
del tutto anacronistici e poi fotografati in colori da sogno.
Ho deciso: non me li porterei a casa neanche questi, neanche i quadri-fotografia
di Morimura. Perché, se l'era dell'opera unica ed irriproducibile è finita,
cosa c'è di più giusto, di più in linea con la nostra contemporaneità,
se non portarsi a casa una riproduzione? Voglio la citazione della citazione:
una fotografia della fotografia.
Elzevirus
1-
Un tot di ragioni per detestare il giornalismo culturale
Telefonata dal giornale
a cui in teoria starei collaborando e con il quale sono attualmente imbufalita
perché ha in giacenza da quasi due mesi un lungo articolo che mi
preme parecchio e chissà quando e se e come apparirà: "Senta,
ci fa 22 righe, 3 libri da segnalare, entro le 14 di oggi, grazie?". Dopo
un'epica e intima e fulminea lotta contro la vocina che mi bisbiglia in
mente "Mandali a cagare, mandali a cagare, mandali a cagare", rispondo
serenissima: "Ma certo, 22 righe ha detto?", e accantonando seduta stante
i due lavori che mi ero programmata di sbrigare in giornata scelgo i tre
libri, scrivo il pezzettino, correggo, allungo, accorcio, ricorreggo,
riallungo, ci do dentro di bulino e di lima e di taglio e ritaglio fino
a che il gioiellino a 22 carati (di 60 battute l'uno) è scintillante
come la mia coscienza. Sarò scema? Perché non mi verrebbe
mai e poi mai di impostare un simpatico ricatto del tipo "Ok, questa cazzata
urgente io ve la faccio solo se in cambio vi impegnate sotto giuramento
scritto a pubblicare entro la settimana il bellissimo articolo inedito
che i vostri concorrenti si sarebbero già accaparrati a caro prezzo
se io non fossi così schifosamente leale e così curiosa di stare
a vedere fino a che punto di sfacciataggine potete arrivare"? È
che mi piangerebbe il cuore per i tre libri da segnalare che non sarebbero
segnalati se non li segnalassi io, ecco. Spedisco il gioiellino per fax
a mezzogiorno, tiè, due ore prima della scadenza.
Alle 14, altra telefonata: "Senta, c'è stato un errore nel conteggio
delle righe, ce ne servono 15 in più. Che fa, le aggiunge in fondo?".
"Eh no" ringhio, "mica si mettono le code ai pezzi così, devo riscrivere
tutto, adesso guardo, faccio, rispedisco... Ha detto 15?" Dunque, 22 più
15 fanno 37, bene, potrò dare uno spazio più adeguato a
quell'interessante romanzo giapponese che mi è piaciuto tanto,
ma ovviamente l'aggiunta cambia tutto l'equilibrio compositivo dell'articolo,
perciò devo tornare sulle frasi precedenti e successive, uffa...
Finito, rifinito, stampato su carta perché a video le finezze non
si notano e può scapparti una ripetizione o un'omissione, sì,
ho riletto, tutto bene, lo faxo e, oops... mentre il foglio passava, mi
sono accorta che mi ero persa per una sola sillaba la possibilità
di un gioco di parole divertente, e sarà vero che fax spedito non
si può raggiungere, ma il redattore forse sì: lo chiamo, c'è,
potrebbe per favore correggermi un momento una parola, terza riga dall'alto?
Ohff, fatta anche questa, e proprio all'ora giusta per schiacciare un
meritato pisolino. Meno male che l'ho vista in tempo, quella parola, e
sì, lo so che non dovrei preoccuparmi tanto, nei giornali nessuno
bada troppo allo stile e spesso capita che un redattore in vena di sadismi
tagli i pezzi a casaccio, e in più ci sono sempre i refusi in agguato,
oddiomio, no, non posso sopportarlo, non dormirò, non imparerò
mai a fregarmene, non sarò mai una vera giornalista, e d'altra
parte se questi qui per nobilitare le loro pagine culturali o per renderle
semplicemente leggibili vogliono gli scrittori, dovranno rassegnarsi anche
loro alle fisime nostre...
Drin, di nuovo il telefono. "Senta, sto impaginando, c'è da tagliare
qualcosina, non molto, un otto righe tipografiche, sa, con le illustrazioni...
Taglio io?" "NOO! cioè, voglio dire, è carinissimo da parte
sua avvisarmi prima e non dopo la pubblicazione, possiamo
tagliare tutto quello che vuole ma insieme, sì?, a sua completa
disposizione, prendo subito il testo... ecco, lì, quell'inciso
lì a riga quattro può andar via, e anche quell'avverbio subito
sotto, e poi, vediamo, l'altro inciso alla riga ventisei, e la frase tra
parentesi, via anche quella, ma non mi tocchi assolutamente i due aggettivi
contrastanti nella..." Dieci minuti dopo, mi rischianto sul letto, ansimante.
È andata bene.
P.S. Cioè, poteva andar peggio. Invece, sono usciti tutti e due: l'articoletto
espresso e anche l'articolone fantasma che ormai non mi aspettavo più
di veder apparire. Allora, perché mi lamento? Il perché è già stato spiegato
da Paul Sheldon, ossia da Stephen King: "Perché gli scrittori ricordano
tutto. Specialmente quello che fa male. Denuda uno scrittore, indicagli
tutte le sue cicatrici e saprà raccontarti la storia di ciascuna di esse,
anche della più piccola". That's all, folks! |