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TITOLO Presidente Bush AUTORE Noam Chomsky (con Jorge Halperìn) EDIZIONE Rizzoli Va bene, è andata così, ma perché non parlarne più? anzi, altri quattro anni non sono affatto pochi e in questi abbiamo almeno la consapevolezza che sarà pure la seconda volta, ma sarà anche l'ultima per quel che lo riguarda (poi d'accordo, non c'è mai limite al peggio e in questo gli Stati Uniti sono una gran madre, ma la speranza è pur sempre l'ultima eccetera). Mentre leggevo questo saggio (in verità in giro già da qualche mese) eravamo nel fiume in piena dei sondaggi dell'ultima settimana di campagna elettorale e i dati fioccavano spintonandosi l'un l'altro tra video e giornali; quando stavo abbozzando questo articolo si era già allo spoglio dei voti e l'aria che tirava non era proprio delle più confortanti e adesso che sto scrivendo, ecco, i giochi sono ormai fatti. In metropolitana, giornale in mano, sento una signora non più giovanissima commentare con l'amica che le è seduta in parte: "Ancora questo qui, ma per quanto ce lo dobbiamo tenere?", commento perlomeno singolare in bocca ad una milanesissima signora, geopoliticamente lontana da quelle che sono le questioni americane. A conti fatti, però, viene da chiedersi quanto questo sia vero, perché in effetti- soprattutto con quest'ultima presidenza- a tratti sembra di averla proprio in casa questa America, che questo George "dabliu" Bush sia un po' anche il nostro presidente. La soluzione prospettica di questo fenomeno non è proprio una novità, porta il nome di "Impero" e, come tale, si muove, sempre meno discreto perché sempre meno disturbato (le stesse ultime elezioni potrebbero benissimo essere interpretate come un secondo mandato a continuare sulla falsa riga inaugurata dalla prima legislatura). Questa macrostruttura, non dichiarata ma non per questo meno tangibile, viene attentamente esaminata in questo saggio da Noam Chomsky, docente di Linguistica presso il Massachusset's Institute of Technology e tra i più acuti e autorevoli osservatori dell'attualità americana (questo non è il suo primo volume di approfondimento, altri sono già stati pubblicati per altre case editrici, così come ultimamente- forse per rigetto- sembra più che mai attivo con contributi per riviste e pubblicazioni antologiche di vario genere). In questo "Presidente Bush", Chomsky indica chiaramente la parola chiave con cui poter leggere lo scorso e, a questo punto, anche il prossimo mandato presidenziale repubblicano: paura. La paura ha caratterizzato gran parte della politica americana di questi ultimi anni, una paura istintiva e legittima davanti a una tragedia come l'11 settembre, ma anche una paura strumentalizzata consapevolmente dalla stessa presidenza, questo è innegabile, per poter distogliere l'attenzione dagli irrisolti e gravi problemi che attanagliano lo stato economico e sociale del paese (qualcuno ha visto l'ultimo provvidenziale spot pre-elettorale di Bin Laden? Sembrava dire "io ci sono ancora", serio e in forma, si vedeva proprio che stava bene). La paura è un bieco sistema di influenza politica, lo ricorda bene l'Italia della strategia della tensione, uno strumento che mistifica, impossibile da respingere senza averlo prima riconosciuto e evidenziato; Noam Chomsky ne fa una diagnosi concisa ed efficace, senza trascurare gli effetti di queste assurde guerre preventive, presentate al mondo come le uniche e inevitabili missioni di pace concepibili. Questo saggio è la godibile trasposizione di una lunga intervista del giornalista argentino Jorge Halperìn, che indaga le posizioni di Chomsky anche in merito al conflitto mediorientale, al riassetto economico est-ovest e altri temi cari a uno degli intellettuali più vicini al movimento no global. Brevi e fluide, sono pagine che vanno via in un soffio, mentre i contenuti fortunatamente restano e, se non lo sono stati questa volta, speriamo tornino utili al prossimo giro. TITOLO La zia marchesa AUTORE Simonetta Agnello Hornby EDIZIONE Feltrinelli "Si mise in giro la voce che la baronessina Safamita, munita di una notevole dote, era pronta al matrimonio". Costanza, erede designata in ultima istanza dal padre Domenico di tutte le fortune di una nobile famiglia dell'agrigentino di fine ottocento, si trova da un giorno all'altro catapultata da una discreta crescita in canonico secondo piano rispetto ai fratelli maschi, a una passerella mondana tra questo o quel buon partito dei salotti palermitani, diligentemente scandagliati dalle cugine ammiccanti e eccitate- certo più di lei- dal fardello di una scelta imbarazzante, tanto sua quanto altrui. Questi altri rampolli nel frattempo altro non vedono che una sconsolata, scomposta figura di una donna ancora acerba e innaturalmente magra e troppo rossa di capelli per riconoscerla entro uno stato sociale che, a lungo andare, ha finito col farsi razza. Passando sopra (con i dovuti sospiri di rimpianto) al canone, ormai andato col tempo, della donna matrona, rimane quel rosso malpelo della tradizione letteraria siciliana ad essere un dettaglio decisamente fuori posto, ora più che mai nel teatro della femminilità aristocratica in bella mostra; come molti dei dettagli del romanzo, anche questo dei capelli potrebbe avere origine in un passato difficile da ripescare, sapientemente custodito dalla memoria a breve termine dell'omertà, quando non della sola cattiveria senza capo né coda di un ceto inacidito da un orizzonte in declino. Piuttosto inusuale è l'assenza di vincoli paterni alla sua selezione, che finirà per concludersi davanti a un marchese non molto quotato, ma di notevole fascino. Di lì in avanti viene il secondo giro di giostra per Costanza, che si caratterizza per gesti generosi o forse solo rassegnati, come il prendersi cura del figlio illegittimo avuto dal suo Pietro con una cameriera, la costrizione del suo desiderio sessuale dietro i paraventi della timidezza o di ricordi ambigui che affiorano sempre poco chiari, l'assicurare un futuro dignitoso al resto della famiglia. Costanza si trova nel pieno di un periodo di transizione politica e sociale in generale italiana e in particolare siciliana, quella stessa transizione che attraversa con poco scarto il Gattopardo, ma senza nessuna nota malinconica per un ceto che non è più carne, ma non può diventare in alcun modo pesce, costretto com'è da una parte dai suoi fulgori artefatti, da rigori di pratiche obsolete, da nomi e cognomi in progressivo disfacimento, e insidiato dall'altra dalla nuova classe borghese in ascesa, forse più sgraziata, ma certamente più pragmatica e motivata. Costanza, dal nome che pare un destino, cerca allora di modulare come può a suo favore le spinte della mafia locale, ritardando quanto più possibile la dissoluzione del casato, sempre più minuto e allo sbando. Un po' De Roberto, un po' Pirandello, è un romanzo dal sapore autunnale questa seconda prova di Simonetta Agnello Hornby, siciliana trapiantata a Londra, già autrice della fortunata opera prima "La Mennulara" (sempre Feltrinelli), che precede di solo due anni "La zia marchesa", in cui ci snocciola- in linea con la migliore tradizione regionale- alcuni passi delle sorti di una famiglia nelle mani di tutto e di tutti meno che nelle proprie, fatta eccezione per questa lontana zia marchesa, realmente esistita e realmente fatta oggetto di chiacchiere e cattiverie, della quale in ogni caso la Agnello Hornby sa poco e niente, giusto qualche informazione strappata ai ricordi dei parenti e a un vecchio e semi sconosciuto racconto di Pirandello, al quale comunque poco si adegua, per ridare lustro ad una persona, prima ancora che un personaggio. La struttura del romanzo è ben orchestrata da voci e personaggi giustapposti l'uno all'altro, che puntano ora più ora meno verso un finale che si rivela per gradi; fra tutti spicca la voce della balia Amalia (e che brutta rima), che ci introduce per prima a questo carosello dinastico. Le atmosfere siciliane sono evocate anche da echi linguistici appena percepibili, soltanto sfiorati da una scrittura molto diversa dall'apparente semplicità dialettale con cui è invece da tempo impegnato Camilleri. Il romanzo, per ultima sintesi, non è affatto scontato, anche se forse riesce più interessante per il piglio analitico con cui viene sviscerato l'ambiente socio-culturale in cui si muove l'intera vicenda. TITOLO Nudi e crudi AUTORE Alan Bennett EDIZIONE Adelphi Ecco una breve(issima) lettura per trascorrere piacevolmente qualche ora libera. Questo romanzetto (poco meno di cento pagine) è comparso per la prima volta in Italia nel 1996, ma da un anno buono ha una sua seconda vita commerciale, balzando così di ristampa in ristampa. L'autore è Alan Bennett, attualmente uno dei più autorevoli e brillanti autori di teatro inglesi, anche se in Italia le sue commedie sono state rappresentate poco (giusto un paio di anni fa qualcosina da Anna Marchesini...); nelle sue opere si respira sempre un'aria di leggerezza, tra il frivolo e l'arguto, trasportata da una scrittura semplice ma che non lascia mai nulla al caso: ecco, diciamo che le sue storie, per come sono narrate, vivono sempre nell'essenziale, vale a dire che non manca mai nulla, ma non c'è mai nemmeno qualcosa più del necessario. Forse così ci si spiega la brevità dei suoi romanzi. In Nudi e crudi l'autore ci racconta la tragicomica vicenda dei coniugi Ransome, una spenta coppia londinese, senza figli, che vive una vita rituale e impostata, sconvolta improvvisamente ad un loro rincasare da una serata trascorsa all'opera, per il Così fan tutte: la loro casa è stata svaligiata nella sua totalità, e non nel senso che tutto ciò che contenevano armadi, cassetti e comodini è stato portato via, ma che sono stati portati via anche quelli, gli armadi, i cassetti e i comodini. Casa Ransome è stata portata via; ne sono rimasti soli i muri spogli. Da questo avvenimento Mr e Mrs Ransome rimangono storditi, colpiti nell'unico frutto del loro matrimonio senza amici nè parenti affezionati. Certo, si potrebbe dire, con un'assicurazione e un tenore di vita decisamente più che benestante come il loro non sarà difficile rimpiazzare il tutto, facendone uscire tra l'altro incolume anche il conto in banca, ma per i Ransome l'evento ha un volto di tragedia soprattutto sul lato emotivo - per lei - e psicologico - per lui. Nelle settimane successive si assiste ad una distinzione netta tra la rassegnazione di lui e la rinascita, invece, di lei; se pure entrambi inizialmente destabilizzati dal macroscopico furto, Mr Ransome, avvocato logico e pragmatico, ne esce turbato, mentre sua moglie riscopre il piacere di tante piccole cose di cui nel suo matrimonio si era privata o lasciata privare dal khomeinismo del marito; i talk-show televisivi, per esempio, o qualche spesuccia superflua, insomma tutto ciò che non aveva mai provato sotto quella sorta di burqua matrimoniale, tipicamente inglese sotto il quale viveva e che paradossalmente le viene portato via insieme con il suo mobilio, lasciandole ritagliare piccoli spazi di autonomia (anche se non completa indipendenza) psicologica, la quale comunque, nella sua riservatezza e compostezza, risulta essere anch'essa tipicamente inglese, ma sempre meglio di quel niente che era. In Nudi e crudi viene evidenziato come spesso il vivere nella logica più stretta non ha senso, e come magari un pò di sana frivolezza possa aiutare a superare un trauma, a finire una vecchia vita e incominciarne una nuova. Come in ogni opera di Alan Bennett, l'intera vicenda sta tra il reale e il surreale; con Bennett si ritrova il gusto delle piccole storie, sfuggendo all'insipida inutilità delle grandiose epopee di certi autori che affollano le librerie. TITOLO
Il Diavolo e la Signorina Prym |
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